Si è svolta oggi, presso il Cinema Apollo di Milano, la conferenza stampa di ACAB – All Cops Are Bastards di Stefano Sollima, già regista del serial televisivo di culto Romanzo criminale. Il film, che vede impegnato un cast all star (Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Andrea Sartoretti, Marco Giallini, Domenico Diele), narra di un gruppo di poliziotti della celere di Roma, solitamente impegnati a contenere gli ultras degli stadi, ma anche a rendere esecutivi gli sfratti e a sgomberare i campi Rom.
Il film si concentra sulle vicende pubbliche e private di Cobra, Negro e Mazinga – tre celerini storici – e della recluta Adriano, con un inedito sguardo dall’interno, mentre sullo sfondo si consumano i più sconcertanti episodi di violenza urbana accaduti negli ultimi anni. In un mondo che ha perso le regole, questi agenti vorrebbero farle rispettare anche con l’uso spregiudicato della forza.
Ecco la cronaca della conferenza.
Che cosa le premeva raccontare?
Stefano Sollima: «L’odio che si respira nella nostra società e che i poliziotti assorbono come fossero una spugna».
Nel suo film si coglie immediatamente il vuoto istituzionale che è alle spalle dei poliziotti della celere. Era suo intento sottolinearlo?
Stefano Sollima: «Sì. I nostri politici non si ascoltano tra di loro. Regna un generalizzato clima di intolleranza. Lo Stato è assente, latitante, non solo nei confronti di noi cittadini, ma anche dei poliziotti che ne sono i rappresentanti. Ma anch’essi quando l’odio che assorbono supera un certo limite o si ritirano o commettono sciocchezze.
Si è documentato tramite storie vere?
Stefano Sollima: «Assolutamente sì. Oltre, all’inchiesta giornalistica di Bonini , che è alla base della sceneggiatura del film, abbiamo incontrato molti poliziotti. Il film è tutto molto vero e nasce da storie autentiche intrecciate tra loro».
Si è ispirato ai poliziotteschi degli anni ’70 per questo film?
Stefano Sollima: «Non ci sono riferimenti diretti ai poliziotteschi di quegli anni, perché rispetto al poliziesco attuale quello era un tipo di cinema più naif. Non c’era tutta questa introspezione. Io conosco bene il poliziottesco, perché mio padre è stato il regista simbolo di quel genere: ha fatto Revolver per esempio. In realtà quello che mi sono proposto con ACAB è che fosse un film con grandi personaggi, grandi musiche, colpi di scena: un bello spettacolo».
Si può parlare di un film costoso?
Marco Chimenz (produttore, Cattleya): «Non quanto richiederebbe un film del genere, perché il cast ha accettato di farlo per un compenso inferiore al solito. Inoltre, abbiamo ricevuto un contributo in quanto opera prima. Noi desideriamo ardentemente che vada bene, perché aprirebbe la strada alla riscoperta di questo genere. Non ci aspettiamo che faccia 10 milioni di euro, ma siamo ottimisti. Abbiamo anche riscontrato che c’è un grosso interesse dei teen ager rispetto a questo tipo di film».
Una domanda per tutto il cast: come vi siete preparati e qual è il vostro giudizio “morale” rispetto ai personaggi del film?
Pierfrancesco Favino: «Il film ci ha richiesto tanta tenuta fisica e molti allenamenti, tra cui anche quelli specifici per il rugby, che per queste persone è uno sport abituale. Ma è stato duro anche psicologicamente, perché abbiamo dovuto tuffarci in una mentalità completamente opposta alla nostra, che ci ha richiesto un salto mortale. Quanto al confine tra Bene e Male che queste persone quotidianamente oltrepassano, non è possibile esprimere un giudizio».
Marco Giallini: «Oltre alla preparazione fisica, è stato proprio quell’oscillare sul confine tra Bene e Male a metterci duramente alla prova».
Filippo Nigro: «Ci siamo preparati attraverso i libri, ma sono stati anche gli incontri con i veri celerini ad aiutarci. Persone che fanno un lavoro che sinceramente non invidio, perché per impedire la violenza a volte sono costretti a usarla. Ovviamente, sto parlando di quelli non “esaltati”».
Domenico Diele: «Mi è paiciuto molto interpretare un personaggi, che, grazie alla sua giovinezza, ha il coraggio di ribellarsi al clima di omertà imposto dai suoi colleghi più anziani. Tradisce gli insegnamenti dei “fratelli” e spezza la catena».
Favino, lei da giovanissimo adorava frequentare la Curva Sud dello Stadio Olimpico. Come sono cambiati i tempi rispetto ad allora?
Pierfrancesco Favino: «Io ho cominciato a percepirlo questo clima di intolleranza e rabbia, che a Roma si è intensificato. Ecco perché ci sono persone costrette a impersonificare la violenza».
Ancora una domanda per il regista: è stato difficile il passaggio dalla TV al cinema?
Stefano Sollima: «In effetti, no. Io ho sempre concepito Romanzo criminale come un film. Il fatto che sia a episodi non lo rende troppo diverso da un film che si divide in atti. Anzi, avevo più tempo a disposizione e più budget, tutti vantaggi».
I celerini e le persone coinvolte negli scontri sembrano la metà di una stessa mela.
Stefano Sollima: «L’idea era quella di declinare l’odio tra le parti. Per esempio, all’inizio del film si capisce che il giovane celerino Adriano viene da un gruppo sociale che detesta la polizia. Quando Mazinga (Giallini) recupera il figlio nella sede degli skinhead a cui si è affiliato, lo trova che sta pogando. In sottofondo c’è la canzone ACAB, All Cops Are Bastards, che dà il titolo al film. E quando Cobra (Favino) viene assolto, lui e gli amici pogano sulle note di Police on My Back».
Sollima, come interpreta la coincidenza per cui esistono ben due film in questo momento che riflettono sulla polizia? Il suo e Diaz di Vicari?
Stefano Sollima: «Probabilmente significa che siamo finalmente pronti a guardarci dentro, ma mentre la mia è una riflessione su un problema quotidiano, quello di Vicari è un film su un fatto storico molto importante. Il mio vuole essere un film di genere, non vuole innescare polemiche di sorta. Solo da noi esistono tutte queste preoccupazioni. In America di sicuro i Servizi Segreti non chiamano il regista di 24 per lamentarsi del fatto che nel film vengono ritratti come potenziali omicidi del presidente. Alla fine è solo un film…».