Ieri abbiamo pensato di proporvi una analisi senza spoiler con tre o quattro ottime ragioni per non perdere assolutamente ACAB – La Serie, da svariati giorni ormai al vertice della Top Ten Netflix. E passiamo allora a uno *SPOILER ALERT* perché di anticipazioni in termini di trama e intreccio ce ne saranno eccome, già che è giunto il momento di passare alla nostra spiegazione dell’episodio finale, il numero sei. In attesa ovviamente di potervi comunicare una conferma ufficiale da parte del network, con luce verde per la seconda stagione. Quindi, se non avete ancora terminato la visione in streaming, potete valutare se addentrarvi ulteriormente in questa seconda analisi. La premessa è che abbiamo particolarmente apprezzato proprio la risoluzione (anche detti pay-off) di tutta una serie di linee narrative di tipo orizzontale, tra le quali anche la risposta a quella domanda che probabilmente tutti ci siamo posti fin dal primo episodio: quale agente della squadra antisommossa protagonista di questo dramma corale è il vero (o vera) responsabile del pestaggio che ha poi determinato il coma di un giovane manifestante, il conseguente scandalo a livello mediatico, e soprattutto dall’indagine aperta come atto dovuto da parte della Magistratura? E premesso anche che sia la pressione mediatica che l’inizio degli interrogatori rappresentano a livello narrativo il detonatore perché noi stessi in qualità di audience iniziamo progressivamente a conoscere sempre meglio i componenti della squadra, aggiungiamo che quale sia il colpevole al centro di questo mistero non è per altro l’unico interrogativo a trovare nell’ultimo episodio un possibile volto. Perché se anzitutto di multivel drama si tratta, il nostro entusiasmo è determinato proprio dall’estrema cura riservata a ogni singolo personaggio in ogni fase, dalla pre-produzione alla produzione vera e propria di ACAB. Dalla sceneggiatura firmata da Luca Giordano, Bernardo Pellegrini, Filippo Gravino, Elisa Dondi, Carlo Bonini (quest’ultimo anche autore del romanzo omonimo già adattato per il grande schermo nel primo film del 2012 firmato Stefano Sollima, ACAB – All Cops Are Bastards, oggi producer della serie Netflix) alla regia di Michele Alhaique. Passando attraverso la colonna sonora firmata dalla band Post Rock Mokadelic, sempre nel solco della loro personale poetica – da Gomorra – La Serie a Citadel: Diana, passando per Sulla Mia Pelle di Alessio Cremonini. Una musica che si configuri come un autentico elemento narrativo, come fosse un altro immateriale personaggio in scena (o forse quel “fantasma sensoriale” descritto da Michel Chion ne L’Audiovisione). Per chiudere il cerchio con le interpretazioni di Marco Giallini (Ivano ‘Mazinga’ Valenti), Valentina Bellè (Marta Sarri), Adriano Giannini (Michele Nobili) e tutti i grandissimi attori che compongono il cast al completo.
Attenzione! Il seguito contiene spoiler sul finale di ACAB – La Serie
Nel precedente articolo avevamo ipotizzato che proprio Valentina Bellè, alias la poliziotta Marta Sarri, unica agente donna tra i personaggi centrali di ACAB, con la complessità del suo arco narrativo e il suo talento rappresenti quell’elemento che porta l’intera serie a un altro livello di intensità, emozione e tensione. Arco narrativo capace di accogliere per altro sia la dimensione professionale che privata, e più oltre quella intima e domestica. In parole più semplici conosceremo Marta come agente in servizio, amica e collega degli altri poliziotti della squadra, madre intelligente e amorevole di una figlia adolescente, e non da ultimo ex di un altro altro agente, lasciato dopo numerosi episodi di estrema violenza coniugale, ora intenzionato a riavvicinarsi alla figlia secondo le modalità dell’affido condiviso. Mamma e figlia sono legate da una sintonia assoluta, mai rappresentata come un irrealistico idillio. E se vediamo inizialmente il personaggio di Valentina Bellè destreggiarsi tra i turni come agente antisommossa e madre single, cercando sempre, incessantemente il meglio per sua figlia, questa giovane donna sa anche che lasciarle passare dei weekend con suo padre significa interpretare un suo forte desiderio. Almeno, finché alla fine della serie non la vediamo prendere in pugno la situazione. E così in un parcheggio, dopo aver concesso a quell’ex che l’ha più volte malmenata, ferita e traumatizzata di dimostrare con i fatti i suoi proclami in materia di cambiamento, la vedremo infine prendere una risoluzione drastica. Ovvero, obbligare con uno stratagemma la nuova fidanzata dell’uomo a salire in auto e confessare le violenze che lei stessa sta subendo ora, nel tempo presente, ovviamente tutto negate e dissimulate con le solite scuse, quelle che sembrano tragicamente un copione già scritto, recitato da una miriade di donne reali in Italia e nel mondo. La figlia di Marta Sarri deve conoscere la verità, perché l’assenza di quel padre possa essere elaborata e il vuoto colmato non con una menzogna, la quale rappresenta per altro una minaccia concreta, già che niente porta a escludere che un genitore del genere non possa un brutto giorno esplodere e rovesciare la sua rabbia inconsulta sulla stessa figlia che ora sembra adorare, mettendo a rischio la sua stessa incolumità personale.
Marta Sarri ha tentato, ha fatto del suo meglio ma ora la misura è colma e non è in alcun modo disposta a correre un rischio del genere. Dopo la fine della serie non sappiamo ancora come evolverà il rapporto dell’agente e sua figlia, per quanto tutto faccia presumere che sarà ancora più stretto, vero e profondo, data l’intelligenza di entrambe queste figure femminili in ACAB. Il punto è che il mistero – l’agente che ha esagerato con lo sfollagente, detto sfolla, quello che quasi tutti chiamiamo ancora con il famigerato nome manganello, spedendo all’ospedale un manifestante in quella terrificante notte in Val di Susa – non è altri che questa stessa donna, Marta Sarri. Al termine dell’episodio sei, arriva anche la tragica notizia che il ragazzo è deceduto. A rappresentare il conflitto tra “la vecchia polizia” e la nuova – prima e dopo il 2001, il G8 di Genova, la morte di Carlo Giuliani e l’incredibile escalation di violenza che non ha sconvolto solo l’opinione pubblica italiana ma il mondo intero, cui culmine è storicamente considerato il Massacro della Scuola Diaz, dove 93 tra giornalisti e attivisti internazionali semplicemente inermi, per lo più addormentati, divennero oggetto di una violenza senza precedenti nella Storia dell’Italia Democratica, prima nello stesso istituto scolastico e poi nella caserma di Bolzaneto – sono stati rappresentati in tutto il corso della serie da due figure mentalmente e professionalmente agli antipodi. E nella dicotomia incarnata da Mazinga di Marco Giallini e il nuovo arrivato, l’agente Nobili di Adriano Giannini, c’è senza alcun dubbio il cortocircuito, il nervo scoperto, l’aspetto più controverso di tutta la serie ACAB; contestata anche da agenti di polizia in incognito, che pure hanno voluto far sentire (ad esempio tramite Vanity Fair) la loro voce e la loro versione di una realtà che ormai dicono diversissima rispetto a quella rappresentata nello show targato Netflix.
In un’altra tragica incursione tra pubblico e privato, abbiamo per altro dovuto conoscere il Michele Nobili di Adriano Giannini come padre, costretto a scoprire che sua figlia adolescente è stata sessualmente abusata da un “amico” nel corso di una festa. Lo stesso agente di polizia ha dovuto scontrarsi in prima persona con la realtà degli interrogatori, la legislazione, le consuetudini italiane rispetto alla violenza sessuale – definite purtroppo già da decenni come una forma di “seconda violenza sessuale” – scoprendo che la ragazza non avrebbe mai potuto dimostrare nulla e che quel ragazzo di buona famiglia l’avrebbe felicemente fatta franca. Dopo aver salvato sua figlia, seduta in finestra e praticamente a un passo da un gesto estremo, Nobili sceglie di parlare chiaro. Con il più giovane collega Lovato, interpretato da Pierluigi Gigante, passa dalle allusioni a una richiesta che non lascia spazio all’immaginazione. E così Lovato con altri colleghi in libera uscita sceglie rapidamente di sfogare la propria rabbia e frustrazione personale e collettiva nell’unico modo che ritengono possibile: una forma di giustizia privata, consumata in un casale isolato, contro quell’arrogante, ricco adolescente che ha palesemente architettato sia lo stupro che l’impunità, ora sequestrato, legato e costretto a scoprire nel peggiore dei modi cosa significhi ritrovarsi all’improvviso dalla parte di una vittima.
E non sarà certo un caso che precedentemente abbiamo dovuto vedere Lovato come oggetto di una delle tecniche di truffa insospettabilmente più efferate e feroci del nostro presente: i cosiddetti Romance Scam (o Truffe Romantiche), parte del sistema denominato Catfishing (o Catsifh): dove molti uomini (e anche donne) cadono nella trappola di false identità social intrattenendo per mesi e anche anni quelle che credono a tutti gli effetti relazioni sentimentali e anche sessuali, consumate in chat e perfino video chiamate secondo le più diverse modalità, escogitate da gente che certo percepisce sé stessa come indigente ma resta al contempo priva del benché minimo scrupolo (che sia in Italia o in altre parti del Sud del mondo), al solo scopo di estorcere e favori e sempre più ingenti somme di denaro (senza escludere l’eventualità di ridurre sul lastrico pensionati, persone giovani o anziane che resteranno sempre con la triplice ferita dei “non amati” ingannati e derubati, fosse anche solo del senso della dignità personale).
Tutta la successione di queste sequenze porta evidentemente la serie ACAB nel territorio del thriller, dell’horror e perfino indietro fino al western classico, in un autentico inferno dove giusto e sbagliato, colpa e ragione (vorremo quasi dire delitto e castigo) si fondono e si confondono fino a farci sentire tutta la sofferenza del dubbio, nell’impossibilità materiale di tracciare e ritracciare con chiarezza il confine tra Bene e Male. La serie sceglie comunque la forma del finale aperto, che si parli di Marta Sarri, Nobili e dello stesso Mazinga: il poliziotto che nel corso della Cena di Natale in caserma, quando tutti sono riuniti come una vera e propria famiglia, annuncia di non poter più convivere con la sua lunga crisi esistenziale e morale, con quel conflitto interiore che da sempre lo accompagna, e sia giunto così per lui il momento delle dimissioni dalla Polizia di Stato. Eppure Mazinga, Ivano Valenti/Marco Giallini resta a tutti gli effetti il finale aperto incarnato. Disposto ad addossarsi la colpa per l’intera squadra antisommossa dopo la morte del giovane manifestante in Val di Susa, scende in prima linea quando esplode una nuova manifestazione spontanea. E sarà proprio lui a finire inseguito, bastonato e lasciato in fin di vita fuori dalla Stazione Termini a Roma, circondato dai colleghi attoniti. Per capire se l’uomo sia vivo o morto, non ci troveremo infine con nessuna certezza. E così la sceneggiatura e la serie hanno saputo condurci a tutta una serie di pay-off, i quali rispondono a tutte le domande solo per rilanciarne ancora altre, sempre più concretamente tragiche, controverse e sofferte.
Scopriremo il seguito nella seconda stagione? Voi che ne pensate? Diteci la vostra, come sempre, nei commenti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA