Al servizio segreto di sua maestà
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Al servizio segreto di sua maestà

Ecco perché lo 007 diretto da Peter Hunt è il più rappresentativo tra tutti i Bond movie, nonché una pietra miliare del cinema action

Al servizio segreto di sua maestà

Ecco perché lo 007 diretto da Peter Hunt è il più rappresentativo tra tutti i Bond movie, nonché una pietra miliare del cinema action

Non serve un esperto di James Bond per asserire che la lunga serie di pellicole dedicate all’agente con il doppio zero e tratta dai romanzi di Ian Lancaster Fleming sia un classico cinematografico: dopo venticinque film ufficiali (e tre apocrifi) distribuiti nelle sale da quasi sessant’anni, sarebbe un’affermazione del tutto scontata. Più complicato è stabilire quale tra questi venticinque titoli sia il classico dei classici, il film di James Bond che, in qualche maniera, riesce a rappresentarli tutti quanti e che, allo stesso tempo, incarni anche qualcosa di profondamente significativo per il cinema tutto.

La risposta più ovvia sarebbe naturalmente il film che diede vita a tutto, quel Dr. No (Agente 007 – Licenza di uccidere) che nel 1962 rese incredibilmente ricchi i suoi produttori, Albert R. Broccoli e Harry Saltzman, e trasformò Sean Connery in un divo mondiale. La pellicola ha, del resto, quasi tutti gli elementi necessari per fare di un film, un film di Bond: c’è la sequenza gunbarrell (la soggettiva attraverso la canna di una pistola) che apre il film, c’è il tema musicale che si sovrappone ai titoli di testa fortemente grafici, c’è M, il direttore dell’MI6 e capo di Bond, ci sono le location esotiche, la tensione, un poco di azione, molte belle donne e l’interprete più iconico della saga. Però, nonostante tutto questo, è ancora un prodromo, un “numero 0”. Broccoli e Saltzman stanno ancora costruendo la formula senza rendersene nemmeno pienamente conto. Manca la cold opening (la sequenza iniziale in medias res, con Bond impegnato a completare una missione precedente di cui vediamo solo la conclusione e che, di solito, non ha collegamenti con la vicenda principale del film) che esordirà solo nel terzo capitolo della saga. Manca Q (presente solamente in una forma accennata), il quartiermastro che fornisce a Bond i suoi fantasiosi gadget (e, di conseguenza, mancano i gadget stessi) e, soprattutto, non c’è ancora quel gusto per l’azione esagerata (e spesso insensata) che diventerà poi un marchio di fabbrica per la serie e che finirà per influenzare il genere action tutto (dai film di Indiana Jones a quelli di Fast & Furious).

Il titolo successivo (From Russia with Love, Dalla Russia con amore, 1963) inizia un lavoro di cristallizzazione degli elementi essenziali che però trova la sua piena realizzazione e definizione solo in Goldfinger (1964), che si può definire a tutti gli effetti il primo vero Bond movie e che, non a caso, si affaccia al primo posto di molte classifiche di gradimento di tanti esperti bondmaniaci. Io (che non sono un maniaco bondiano ma solamente una persona equilibrata che ha dedicato alla creatura di Fleming parecchi anni della sua vita, spendendoci sopra una immorale quantità di soldi), non concordo.

Dal mio punto di vista, l’ambientazione principale di Goldfinger (i prosaici Stati Uniti), la rozzezza del cattivo principale e una certo umorismo grossolano, non permettono di classificare il film come “il classico bondiano per eccellenza”. Sia chiaro, non sto dicendo che non sia uno dei migliori film di 007 di sempre, dico che la mancanza dell’elemento esotico e di una certa eleganza, gli impediscono di essere il capitolo più rappresentativo della saga.

Le cose, almeno in questo senso, vanno meglio con le due pellicole successive: Thunderball (Operazione Tuono, 1965) e You Only Live Twice (Si vive solo due volte, 1967), che hanno tutti gli elementi giusti al posto giusto ma che, purtroppo, sono anche dei film molto meno riusciti. Banale e privo di inventiva il primo, fatalmente azzoppato dalla svogliatezza di Connery il secondo (c’è da dire che l’idea di trasformarlo in un giapponese avrebbe tolto la voglia a chiunque). E arriviamo a On Her Majesty’s Secret Service (Al servizio segreto di Sua Maestà, 1969), il primo 007 senza Sean Connery, quello con il protagonista interpretato da un modello australiano (oltre che ex-sergente delle forze speciali, specializzato nel combattimento corpo a corpo) e diretto dallo sconosciuto Peter Hunt, che fino a quel momento era stato dietro a quasi i tutti i film di Bond realizzati, ma come regista della seconda unità (quella dedicata alle scene d’azione). Un film che per molti anni è stato ricordato come il primo passo falso della serie e che solo in tempi recenti è stato giustamente rivalutato, fino a dargli (meritatamente) non solo un posto di massimo rilievo nella filmografia dei film di James Bond, ma anche a riconoscergli il suo ruolo come pietra miliare del genere action per il cinema tutto.

Dopo una cold opening piena di atmosfera, mistero ed azione (resa memorabile da una delle migliori battute pronunciate da 007 in tutto il franchise), la vicenda si snoda tra varie location esotiche ed è articolata e relativamente complessa (per un film di Bond).

La nemesi è quella di sempre (Ernst Stavro Blofeld), ma vengono presentati anche nuovi alleati di grande carisma e, soprattutto, entra in scena la Contessa Teresa di Vincenzo (interpretata dalla eccezionale Diana Rigg), personaggio che avrà un ruolo importantissimo nella vita di Bond. Mistero, investigazione, tensione, amore, umorismo (anche becero a tratti), sensualità (becera anche questa, spesso), dramma e tanta azione. Azione come mai prima, per quantità, intensità e qualità. Con Al servizio segreto di Sua Maestà, Peter Hunt non solo consegna agli appassionati di 007 il film perfetto della spia con licenza d’uccidere, dove tutti gli elementi sono al posto giusto e nella giusta quantità (anche se, a voler essere pignoli, ci si potrebbe lamentare della mancanza di qualche gadget significativo), ma segna anche la strada per tutto l’action cinematografico a venire, generando decine e decine di emulazioni (più o meno riuscite) e diventando il paradigma per il genere. E per quanto riguarda George Lazenby, l’interprete chiamato a sostituire Connery, la verità è che è un Bond perfetto, atletico, capace, dotato di ironia ma anche di durezza, ed è un peccato che l’attore abbia poi rifiutato (è stata una scelta sua e non della produzione, come invece raccontano i poco informati) di vestire ancora i panni del personaggio, perché sarebbe riuscito a imporsi. In conclusione, se non avete mai visto un film di James Bond e volete vederne solamente uno per capire come sono, oggi come allora, Al servizio segreto di Sua Maestà è la scelta migliore.

Credit foto

© Eon productions, United Artists

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