Prima di questo incontro ci saremmo aspettati che Alec Baldwin (il più famoso del suo clan di fratelli attori) incarnasse lo stereotipo della star hollywoodiana, navigata e annoiata. Niente di più sbagliato: non solo gli fa ancora effetto essere diretto da Woody Allen in To Rome with Love (già suo regista nel lontano Alice) ma approfitta dell’intervista per svelarci la sua passione per i documentari. E ce ne consiglia anche qualcuno. Prendete nota!
Abbiamo incontrato Baldwin dopo aver fatto quattro chiacchiere con Woody Allen, Penelope Cruz e Jesse Eisenberg:
Allen è stato vago sul tuo ruolo, Eisenberg ha detto di vederlo come un fratello maggiore. Chi è secondo te John, architetto americano di successo?
«John è il presente mentre il personaggio di Jesse, Jack, è il John ragazzo, quello che sta studiando per diventare un architetto in grado di progettare imponenti centri commerciali. Andando in giro per Trastevere, il mio personaggio s’imbatte nei ricordi più che nei luoghi e ripercorre un episodio centrale della sua giovinezza, quello dell’innamoramento per una a cui interessa più sedurre che amare. Tutti guardiamo alla nostra vita come un percorso e di tanto in tanto proviamo a ricostruire in che modo siamo arrivati a fare una certa cosa, quando abbiamo deviato e finito per fare la scelta sbagliata. In questo film il mio personaggio ha l’opportunità di rivivere quel momento in cui ha sbagliato».
Al cinema è sempre più facile. Si può viaggiare nel tempo e magari fermarlo, ma nella vita normale c’è modo di capire dagli errori del passato per evitare di ripeterli?
«No, si può solo provare a essere più indulgenti con se stessi. Penso che più cresciamo e meno duri sono i colpi che ci infliggiamo. Anche nel film Jack e John capiscono che quello è un capitolo chiuso della loro vita. In generale a me sta bene così, andrei al manicomio se si potesse fare nella vita quello che si fa al cinema, come rivivere errori del passato in maniera passiva senza poter fare niente a parte guardarsi andare incontro alla catastrofe. No, è già abbastanza dura quando ci si auto giudica, non c’è bisogno di rivivere anche le situazioni. C’è una frase famosa che riassume bene il mio punto di vista, dice “Non consentirei mai a nessuno di parlarmi nel modo in cui mi parlo io”».
Riguardarti nei film invece ti piace?
«Non mi riguardo mai! Il cinema è intrattenimento e non potrei mai essere intrattenuto da me stesso. Può capitare di adocchiare qualcosa in cui ho recitato facendo zapping e magari penso anche “non è così male come pensavo”. Il grande piacere di lavorare con Woody è che è un grandissimo regista e un grandissimo scrittore insieme. Invece negli ultimi dieci anni in America gli studios, per risparmiare soldi, hanno adottato la politica dello sceneggiatore che diventa regista, una moda che fa male al cinema. Mi capita spesso di ricevere proposte per pellicole fatte in questo modo ed è un peccato. Oggi da noi ci sono molti buoni attori ma pochissimi grandi registi».
Citando Fred Astaire, Allen ha detto che i film sono la sua vacanza dalla realtà. Che ruolo affidi all’arte nella tua vita?
«Sono convinto che l’arte possa fare qualcosa in un momento doloroso come questo in cui la crisi economica ha propagato ansia in tutto il mondo. Negli Usa c’è una speciale inquietudine: moltissimi prendono pillole e farmaci per non pensare. Gli americani sono stanchi delle decisioni fallimentari che hanno preso. Io provo a utilizzare il cinema per risvegliare le coscienze e donare poesia allo stesso tempo, attraverso i documentari. Vado matto per i documentari specie quelli su temi forti fatti dai miei connazionali. Sono tra i curatori di un piccolo festival, l’Hamptons International Film Festival che si svolge in ottobre e ha 4 appuntamenti in anteprima durante l’estate, il periodo più vivo per gli Hamptons che sono una località di villeggiatura vicino New York. Approfitto del festival e mi batto per programmare opere interessanti che mescolino, come dicevo, temi forti e storie delicate. Vi consiglio di vedere The House I live In di Eugene Jarecki, che mostra quanto sia facile scivolare nella droga in un momento di tristezza globale come questo, e Entre les Bras, del regista francese Paul Lacoste, sul passaggio di consegne da padre a figlio, di un prestigioso ristorante». (Foto KikaPress)
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