Abbiamo avuto il piacere di intervistare Alex Polidori, doppiatore di talento che ha prestato la voce a Timothée Chalamet e a Tom Holland in numerosi progetti. Artista poliedrico, a soli 29 anni ha già costruito una carriera solida come attore, doppiatore e cantautore. Con oltre mezzo milione di follower sui social, è una delle voci più autorevoli del doppiaggio italiano e dal 23 gennaio è nelle sale con A Complete Unknown, l’atteso biopic con Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan.
La sua carriera inizia da bambino, quando si fa notare nel programma Bravo Bravissimo di Mike Bongiorno, e prosegue con apparizioni in fiction come Il Bello delle Donne, Ricomincio da Me e la sitcom Fiore e Tinelli su Disney Channel. Ma è nel doppiaggio che trova il suo spazio più significativo: sua è la voce italiana di Nemo in Alla ricerca di Nemo e di Koda in Koda, fratello orso, mentre dal 2016 è l’inconfondibile Spider-Man di Tom Holland in tutti i film del Marvel Cinematic Universe. È anche la voce italiana di Timothée Chalamet in film come Chiamami col tuo nome, Lady Bird, Un giorno di pioggia a New York e Wonka.
Oltre al cinema, ha doppiato personaggi di serie tv di successo come One Piece, Adventure Time, Hazbin Hotel, Star Wars: Rebels, Atypical, Elite, The Boys, Outer Banks, Ginny & Georgia, Euphoria e Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere.
Parallelamente alla carriera da doppiatore, Alex coltiva la passione per la musica, componendo e interpretando i suoi brani. Il suo ultimo singolo, Doppio Cuore, conferma la sua versatilità artistica, rendendolo un talento trasversale capace di muoversi con naturalezza tra doppiaggio, recitazione e musica.
Con lui abbiamo parlato delle sfide incontrate lungo questa nuova avventura, del rapporto con il cinema e della crescente attenzione per la professione del doppiatore nell’era dei social, alla luce dell’uscita dell’atteso A Complete Unknown di James Mangold.
Sei la voce italiana di Timothée Chalamet, lo hai doppiato anche in questo film, ora al cinema. Oltre a essere un attore amatissimo dai giovani, è particolarmente lodato dal punto di vista critico per la sua versatilità. Cosa significa per te dare voce allo stesso attore, ma in ruoli completamente diversi, visto che l’hai doppiato per più film?
«Devo dire che, soprattutto negli ultimi film, ha affrontato molti cambiamenti ed è stato estremamente camaleontico. L’ultimo film prima di questo, in cui interpretava Bob Dylan, è stato Wonka, un ruolo completamente diverso. Non è facile adattarsi, perché quando ci si abitua a mettere la propria voce su un volto, modificarla può essere complesso. Per fortuna, lui è talmente bravo che, seguendo il suo percorso, riesco a rimanere sul suo binario. Anzi, mi piace dire che è come seguire uno spartito: gli attori recitano come se componessero una melodia, e noi doppiatori dobbiamo ricalcarla. Possiamo fare qualche piccola variazione, ma dobbiamo restare fedeli al tema principale. Se l’attore è bravo e offre un’interpretazione molto caratterizzata e personale, il nostro lavoro diventa ancora più stimolante».
«Questo film, in particolare, è stata una bella sfida, anche dal punto di vista tecnico. La vocalità era molto specifica e doveva essere resa in modo da combaciare perfettamente con le parti cantate, che sono rimaste in lingua originale. Per lui, interpretarlo in inglese è stato più semplice, mentre in italiano abbiamo dovuto adottare tecniche più complesse per mantenere la coerenza del personaggio. È stato impegnativo, ma anche molto bello, riuscire a rimanere perfettamente incollato alla sua espressività da un film all’altro».
Hai anticipato la mia domanda successiva: quali sono state le sfide principali che hai dovuto affrontare proprio dal punto di vista linguistico, nel restituire in italiano la personalità di un’artista così intrinsecamente legato alla lingua inglese, allo slang americano?
«La sfida principale è stata trovare il giusto equilibrio tra il comprensibile e il non comprensibile, evitando un’impostazione eccessivamente artefatta, come spesso accade nel doppiaggio. L’obiettivo era mantenere un’intonazione naturale, ma senza sacrificare la comprensibilità del testo. È stato un continuo lavoro di aggiustamenti: a volte il risultato era troppo chiaro, altre volte troppo poco».
«Un altro aspetto complesso è stato quello vocale. Dovevamo trovare una voce leggermente schiacciata, quasi nasale, che in inglese risultava più naturale grazie allo slang americano. La magia doveva crearsi senza che questa particolarità diventasse un elemento di disturbo. Il rischio era di scivolare nella caricatura, ma bisognava evitarlo. Per questo abbiamo lavorato su equilibri sottilissimi, dosando ogni sfumatura. Alla fine, credo che il risultato sia stato un buon compromesso tra fedeltà all’originale e adattamento alla lingua italiana. È sempre stato così per me: il doppiaggio è un gioco di sfumature e questo film ne è stato un esempio perfetto».
Sapendo anche che sei attivo in ambito musicale, che rapporto avevi con la figura di Bob Dylan prima di questo ruolo? Ho letto che una delle indicazioni che James Mangold ha dato a Larry Saltzman – insegnante di chitarra e consulente per la preparazione di Timothée – è stata quella di lavorare tenendo sempre a mente il fatto che per molti giovani questa sarebbe stata la loro introduzione a Bob Dylan, ed effettivamente è vero.
«Sono sincero: conoscevo solo alcune canzoni di Bob Dylan, le più famose, ma in modo piuttosto superficiale. Ascoltarlo in originale mi ha aiutato a capire meglio i suoi testi e il loro significato. In particolare, ho compreso che, soprattutto nella prima fase della sua carriera, i suoi brani veicolavano messaggi importanti di carattere sociale, molti dei quali, sorprendentemente, sono ancora attuali. Anche se parliamo degli anni ’60, possiamo ritrovare delle tematiche che si collegano alla nostra cultura e alla società di oggi. Un altro messaggio fondamentale che emerge dalla sua musica è quello di non piegarsi troppo alle apparenze, soprattutto quando si raggiunge il successo. Rimanere fedeli a se stessi è essenziale, e alla fine è proprio questo a fare la differenza».
Al di là poi del del tuo lavoro dell’attività di doppiaggio, sei anche appassionato di cinema? La vicinanza alla figura di Timothée, che è comunque un’icona del cinema del presente, ti ha aiutato a scoprire qualcosa in più della Settima Arte o legarti a qualche regista che non conoscevi?
«Sono molto affezionato a Chiamami col tuo nome, perché è stato il primo film in cui ho doppiato Timothée Chalamet. Avevo già visto alcuni suoi lavori in precedenza, ma non ricordavo che fosse lui: l’ho scoperto solo dopo. L’ho doppiato anche in Bones and All. È un film particolarissimo e, in occasione di alcuni eventi, ho avuto modo di parlare con Luca Guadagnino. È stato molto carino, e il suo modo di girare mi piace davvero tanto. Call Me by Your Name mi emoziona tantissimo, mentre Bones and All ha un’atmosfera unica: è un vero e proprio viaggio, quasi un on the road cinematografico»
«Per quanto riguarda il cinema in generale, il mio rapporto è un po’ particolare. Ho studiato regia, ma più a livello televisivo. Passo tanto tempo in sala di doppiaggio, quindi non guardo molti film a casa: se vado al cinema è più per stare con gli amici o per eventi speciali, come le premiere. A casa, invece, non accendo quasi mai la TV, anche per staccare un po’. Forse è anche per questo che la musica è diventata per me un’evasione importante».
Come pensi sia cambiata la percezione del lavoro del doppiatore nell’era social? Noto che il pubblico di TikTok è molto interessato a questa professione, ci sono tanti ragazzi giovani che si stanno dedicando a questa professione e, in generale, vedo che c’è molto interesse sulle piattaforme circa il racconto di quest’arte.
«Sì, è una cosa molto bella, perché da sempre il doppiatore è stato un po’ nell’ombra. Da una parte è anche nella sua natura: per creare quella magia in cui l’attore parla italiano, non dovremmo sapere bene chi ci sia dietro. Però i tempi stanno cambiando, ed è giusto anche adeguarsi. C’è un aspetto positivo in tutto questo: dare un po’ di visibilità e gratificazione a chi contribuisce così tanto alle emozioni che lo spettatore prova. Tu vai al cinema e non solo guardi le immagini, ma ascolti i doppiatori, soprattutto se vedi un film in italiano. Tante persone guardano i film doppiati, quindi il nostro lavoro viene notato, ci scrivono, ci commentano, e vediamo che è molto apprezzato… oppure no, perché a volte arrivano anche critiche. È interessante, perché il doppiatore svolge un servizio per il pubblico: il suo lavoro serve a rendere fruibile un prodotto in italiano».
«È bello non rimanere solo nelle nostre salette buie, un po’ come in una biblioteca, ma uscire allo scoperto. Questo ci ha avvicinato molto al pubblico, anche fisicamente, perché partecipiamo agli eventi, veniamo invitati, conosciamo persone e riceviamo tanto affetto. A noi fa molto piacere. Ovviamente, ci sono doppiatori che preferiscono restare nell’ombra, per loro natura, mentre altri sono più spigliati e vogliono emergere. Io, ad esempio, ho iniziato ricevendo molto interesse per il mio lavoro e così mi sono avvicinato sempre di più al mondo dello spettacolo».
Sei anche la voce di un altro idolo giovanile, Tom Holland. Abbiamo parlato della versatilità attoriale di Timothée Chalamet ma, anche nel caso di Spider-Man, possiamo dire che si tratti quasi di una doppia performance. Da una parte c’è il supereroe, dall’altra Peter Parker. Come lavori in questo caso?
«È un po’ come doppiare due personaggi, hai detto bene. Quando è Peter Parker, è timido, maldestro, impacciato, un po’ più vulnerabile».
Sì, la parte con cui il pubblico empatizza di più, perché è il ragazzo della porta accanto.
«Esatto, ed è proprio questo il bello. Va affrontato con un approccio recitativo specifico, facendo sentire quel suo impaccio. Mi piace molto perché ci sono tante sfumature nel modo in cui parla: non è mai lineare, ci sono esitazioni, incertezze che lo rendono più umano. Quando, invece, indossa il costume, diventa più sicuro di sé, potente, dinamico, energico. Anche nei primi film, quando ancora non lo è del tutto, si percepisce comunque una crescita in questo senso. È come interpretare due lati diversi della stessa persona».
«Mi ci rivedo anche un po’, perché ci sono aspetti di Peter Parker che ritrovo nella vita di tutti i giorni. Poi, magari, quando salgo su un palco per suonare o fare altro, divento più spigliato, come se indossassi anch’io un costume. È giusto che sia così, fa parte del nostro lavoro. E in effetti è molto divertente poterli interpretare entrambi: è una sfida stimolante».
Quali sono i tuoi Best Movies? Ci sono film che ti hanno segnato per sempre o che rivedresti all’infinito?
«Spazierò molto. Io sono un grandissimo fan di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ogni giorno parlo per citazioni loro, quindi non posso non includerli tra i miei preferiti. Non saprei nemmeno quale scegliere, ma ti direi Tre uomini e una gamba, anche se amo molto anche Così è la vita, che di solito nessuno mette nella top 3 e che ha anche una colonna sonora bellissima dei Negrita. Oltre a questo, il mio film preferito in assoluto, quello che ho sempre considerato il mio film del cuore, è Matrix. Ho persino fatto la tesina della maturità su Matrix, collegandolo a Schopenhauer e altri temi filosofici. Non faccio parte della cerchia che apprezza solo il primo film: a me piacciono tutti e tre. A livello registico e visivo, è stata una saga importantissima, innovativa in maniera straordinaria per l’epoca. Considerando che è uscito nel 1999, era davvero avanti sui temi e sulla realizzazione tecnica. E poi mi piace tantissimo Keanu Reeves in quel film. Amo anche il doppiaggio, che per me è fondamentale: Luca Ward ha fatto un lavoro incredibile. Era il periodo in cui doppiava anche Il gladiatore ed era in grandissima forma».
Già, tant’è che tutti ricordano il doppiaggio de Il gladiatore, mentre pochi associano subito Luca Ward a Matrix.
«Esatto, ed è proprio questo il bello! Il nostro mestiere deve funzionare così: ci possono essere voci iconiche, ma l’ideale è che non si riconosca subito chi c’è dietro. Questo è il miglior complimento per un doppiatore. Per il resto, passo da un genere all’altro! Ad esempio, la mia commedia americana preferita è Terapia d’urto con Adam Sandler».
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