A qualche mese dalle elezioni municipali, il sindaco di Lione, Paul Théraneau (Fabrice Luchini) non ha più idee. Dopo trent’anni di vita politica è come svuotato. In suo soccorso, l’entourage comunale recluta una giovane normalista. Il ruolo di Alice Heimann (Anaïs Demoustier) è rigenerare la capacità di pensare del sindaco e la visione necessaria all’azione politica. Introdotta nel cerchio della fiducia, Alice rivela un’agilità innata per riflessioni ad ampio raggio fornendo carburante alla macchina municipale.
Dopo Le Grand Jeu, anch’esso dedicato a temi politici, il cineasta francese Nicolas Pariser propone in Alice e il sindaco un dialogo a due voci che affonda pienamente le mani nel disincanto e nelle frequenti crisi d’identità che spesso investono e affollano, oggigiorno, la gestione della cosa pubblica. Il personaggio del primo cittadino è infatti un politico non certo in malafede ma stanco e affaticato, che non trova più alcun conforto nei valori progressisti di una volta e si sente schiacciato da una pressione per cui tutto ciò che dice e fa può essere usato contro di lui.
La giovane filosofa, d’altro canto, detiene una lucidità radicata nel proprio raziocinio, fortificata dagli studi a Oxford e da una brillantezza dialettica che si sposa con una modalità fluida di leggere la realtà, aperta alle sollecitazioni del presente e alle sue sfaccettature, impossibili da associare alle certezze granitiche che si avevano una volta, tanto nella teoria quanto nella prassi dell’intervento sul sociale.
Un’attitudine eclettica, e diciamo pure relativista, che sarà puro ossigeno per il sindaco alla quale Alice viene affidata, dapprima coma una sorta di stampella e di tutor e fino a diventare, via via che la sceneggiatura prende corpo, una specie di alter ego illuminato, di completamento ideale in grado di dare una sembianza di sistematicità al caos della sua generazione. Lei, che è una donna di pensiero, si ritroverà a essere il braccio di una mente ormai in bambola, con griglie vecchie per tempi imprendibili.
È un solido film di scrittura, Alice e il sindaco, che possiede un suo umorismo leggiadro ma anche le spalle larghe e il giusta rigore morale e analitico per far duellare con pensosa malinconia, e una buona dose di paradossale amarezza, due visioni del mondo solo sulla carta contrapposte e che, in realtà, non possono non aver disperatamente bisogno l’una dell’altra. ll lavoro sui dialoghi è poi sapiente e raffinato: tutti i temi, declamati dal film con delicatezza, sono esemplificati a chiara lettere fin dall’inizio, così da poterli approfondire e incrinare sequenza dopo sequenza. Ed è interessante notare come la possibile stereotipia della rispettive parti in campo venga sempre aggirata, perché sia Paul che Fabrice sono figure più travagliate e dense delle apparenze. Tanto da dover equilibrare luci e ombre per intavolare, in maniera tutto sommato solare (ma per fortuna non utopica), una proposta di risoluzione e di ripartenza, come si direbbe in politica.
Il regista Pariser dimostra inoltre il suo debito d’ispirazione con Eric Rohmer, ammantando il suo film di una precisa dimensione intellettuale: un cinema di parola intelligente che si concede anche ottimi momenti formali (il piano sequenza della redazione del discorso per l’Eliseo) e valorizza, all’interno dei suoi spunti, gli apporti dei due interpreti, al servizio di un’amicizia dalle ricadute emotive d’ampio respiro: Anaïs Demoustier, radiosa e dolcemente enigmatica come spesso accade ai suoi personaggi, e un Fabrice Luchini capace di far virare il proprio consueto gigionismo verso un’idea di misura e di economia drammatica particolarmente acuta e spigolosa.
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