Qualche tempo fa era uscita la notizia che World War Z, lo zombie movie interpretato e finanziato da Brad Pitt, avrebbe probabilmente avuto un seguito nonostante i risultati non esaltanti al botteghino. Creare un franchise per la sala ha costi e rischi a volte mal spesi (vedi John Carter o The Lone Ranger), ma a lungo termine può creare grandi benefici: il pubblico riconosce il brand e, rassicurato, cresce. Un discorso del genere vale anche per Pacific Rim, il cui sequel è già stato annunciato. Ne sa qualcosa Jason Blum, Re Mida dell’horror minuscolo, produttore illuminato che sta dietro al successo di saghe milionarie come Paranormal Activity e Insidious, con la sua Blumhouse Production. Mette in piedi film di buone idee e budget piccolo (generalmente si parte con un milioncino), dà il final cut ai registi, li paga poco e poi divide i profitti. Il metodo funziona spesso, a volte benissimo.
È il caso di The Purge (in Italia uscito lo scorso anno come La notte del giudizio), thriller distopico dove si immagina un futuro prossimo in cui – ogni 21 marzo, per 12 ore – i diritti civili sono sospesi e ai cittadini è consentito compiere qualsiasi crimine. Uno sfogo che a quanto pare garantisce una società ricca e placida, un livello di benessere e sicurezza mai conosciuto prima.
Su questo concept il primo film era costruito come una teoria dell’assedio, un giochino carpenteriano con zero tempi morti e momenti di seria brutalità, che filava liscio come l’olio e durava – anche per limitazioni di budget – appena 80 minuti, tutti dentro e intorno a una villetta.
Ora, il gioco del sequel è sempre gioco al rilancio, e in questo Anarchia – La notte del giudizio (stesso regista, James DeMonaco) la premessa diventa il panorama per un’apocalisse urbana, una specie di Fuga da New York ambientata nella downtown di una metropoli non nominata. Ci sono tre storie che partono separate e convergono per riunire, a purga iniziata, quattro disgraziati rimasti all’aperto per sfiga e un vigilante in cerca di vendetta (Frank Grillo, appena visto nell’ultimo Captain America) che finirà ovviamente a fare da balia agli altri.
Tutto diventa in fretta la solita metafora grado-0 della lotta di classe, con i disgraziati a far carne da macello per i miliardari e conseguenti ansie rivoluzionarie, ma qui interessa più verificare l’abilità – produttiva, appunto – di gonfiare una premessa in termini di spazi e personaggi, di allargare un immaginario di film in film, aggiungendo volti, azioni/azione (inseguimenti, sparatorie, cacce all’uomo), luoghi. È una mossa geometrica, misurabile. E che dice moltissimo del modo di sopravvivere oggi di certo cinema medio, thriller brutto sporco e cattivo, fra un Transformers e un Hunger Games.
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