Dopo Weekend e 45 anni, entrambi sorprendenti, sensibilissimi e accolti con grande emozione da critica e pubblico, il regista inglese Andrew Haigh ha portato al Festival di Venezia Lean on Pete – che in Italia uscirà con il titolo Charlie Thompson –, una storia di formazione e solitudine, e al contempo un road movie tra i deserti desolati dell’ovest degli Stati Uniti. Protagonista il giovanissimo Charlie Plummer (tenetelo d’occhio, sarà anche protagonista del prossimo film di Ridley Scott Tutti i soldi del mondo) nei panni di un ragazzo senza famiglia e senza futuro che trova nell’amicizia con un vecchio cavallo da corsa, il Lean on Pete del titolo, la forza di intraprendere un viaggio che potrebbe aprirgli una nuova vita.
Dopo due film inglesi e girati in Inghilterra, sentivi l’esigenza di cambiare paesaggio e interpreti, e girare negli Usa?
«Sono sempre stato affascinato dall’America, ci ho vissuto per qualche tempo quando stavo girando la serie tv Looking, e la visito spesso. Dopo Weekend e 45 anni cercavo un progetto completamente diverso e quando ho letto il libro da cui il film è tratto (La ballata di Charley Thompson di Willy Vlautin, ndr) me ne sono innamorato. Di solito quando scelgo i film da dirigere faccio così, me ne innamoro».
Cosa ti ha colpito del libro?
«Di certo il personaggio di Charlie, la sua incredibile solitudine, e nonostante tutto la sua voglia di cercare la tanto agognata sicurezza. Mi ha colpito la speranza, che lo spinge a non mollare».
Anche negli altri tuoi film c’è sempre una certa solitudine che caratterizza i protagonisti.
«Forse perché mi sento molto solo… A parte gli scherzi, non si tratta di trovarsi a piangere in un angolo, ma credo davvero che molti di noi, anche quando stanno bene, si sentano soli. Credo anche che uno degli sforzi maggiori della nostra vita sia proprio cercare di combattere questa solitudine, e in tutte le storie che ho raccontato ci sono motivazioni diverse per quel senso d’isolamento».
In questo caso a spingere Charlie fuori dalla sua solitudine c’è Lean on Pete, un cavallo. come è stato avere come interprete principale un animale del genere?
«Non avevo nessuna esperienza con i cavalli, a parte un trauma infantile derivante dalla mia prima e credo unica cavalcata, a otto anni. Ma quando mi capita di vedere persone con i loro cavalli noto ogni volta un legame fortissimo, che si è instaurato subito anche tra Charlie e Lean on Pete. Quando il ragazzo arrivava sul set il cavallo era visivamente contento di vederlo ed era tranquillo. Quando mi avvicinavo io invece non lo era più. Abbiamo fatto un grande lavoro con gli addestratori, dovevamo essere molto chiari su quello che volevamo, ed è stata una bella sfida».
Negli ultimi anni la tua carriera è esplosa: è cambiata anche la tua vita?
«In sei anni è davvero cambiato tutto, e stanno succedendo cose che avevo sognato, come essere qui a Venezia. È davvero un’emozione, ma cerco di rimanere con i piedi per terra, anche perché fatto un film si ricomincia tutto da capo: si devono trovare i finanziamenti, gli attori, girarlo, promuoverlo. È un circolo, ma va bene così».
Cosa pensi dei tuoi film passati, a rivederli ora?
«Non rivedo mai i miei film. O meglio, li vedo alle presentazioni ufficiali, una sola volta, e poi basta. Certo, se mi chiedete di Weekend posso raccontarvelo scena per scena, e così per tutti gli altri lavori, ma non mi piacerebbe rivederlo. Non perché sia critico con me stesso, ma perché il risultato finale è solo una piccola parte di tutto un percorso».
Per i tuoi prossimi film pensi di tornare a girare in America?
«In realtà non mi interessa fare una grande carriera hollywoodiana, voglio fare film che mi piacciano. Ammetto però che aver fatto dei lavori che hanno avuto successo ha portato sul mio tavolo parecchi script, molti dei quali proprio hollywoodiani. Ma tutti i film che dirigo li scelgo perché sento che sono giusti in quel momento, per come sto vivendo e per quella fase della mia carriera».
Prossimi progetti?
«Farò una miniserie in sei o sette parti prodotta dalla BBC che si intitolerà The North Water e sarà un mystery survival drama che prende ispirazione dal libro omonimo di Ian McGuire. Sarà ambientata in una baleniera tra le acque artiche, a metà dell’Ottocento, quindi passerò dai cavalli alle balene! (ride ndr)».
Torni alla televisione quindi.
«Sì, ma questa è una miniserie che ha già una durata decisa e limitata. Looking della HBO è stata cancellata dopo due stagioni perché non era abbastanza seguita ed è stato un duro colpo, ma sono cose che succedono. Lavorare in tv è molto diverso che fare film: c’è meno tempo, si deve pensare che anche il pubblico è diverso, spesso più distratto».
Sei d’accordo con chi dice che la tv finirà in una certa misura col sostituire il cinema?
«No, affatto. Come dicevo sono cose molto diverse, continueremo a farle entrambe e a volerle entrambe. Io non ho preferenze, se il progetto mi piace non ho problemi a girare una serie o un film. Ma anche se le produzioni in tv stanno crescendo, ci sono più soldi e autori più bravi, la serialità rimarrà sempre una cosa diversa dal cinema».
Cosa ne pensi invece della realtà virtuale?
«Che non è cinema. Ho partecipato a un meeting con Amazon e mi avevano chiesto cosa pensassi di un progetto in realtà virtuale, quindi ci ho dovuto riflettere, ma alla fine non se ne è fatto nulla: non mi piace e non la capisco. Si perde l’idea di regista, non si coglie più il suo unico punto di vista che è alla base di qualsiasi film. Quindi, davvero, può essere una cosa divertente, ma non ha nulla a che vedere con il cinema».
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