La nostra intervista ad Antonio Albanese in occasione dell’uscita di Contromano.
Nel 2017 lo abbiamo visto al cinema con due ben film: Mamma o papà e Come un gatto in tangenziale. Girati entrambi con Paola Cortellesi, sono stati due importanti successi al boxoffice a testimonianza dell’affetto del pubblico per questi due comici mai banali, mai uguali a se stessi e sempre in grado di fotografare con ironia tagliente la nostra società.
Nel 2018 Antonio Albanese torna sul grande schermo in solitaria; l’occasione è Contromano, commedia “paradossale” sull’immigrazione di cui è regista oltre che protagonista. Ne abbiamo parlato con lui e, durante la lunga telefonata, l’attore ci ha anche raccontato del particolare momento della sua carriera, oltre che del suo amore per Aki Kaurismäki e del suo ultimo libro Lenticchie alla Julienne, racconto esilarante (con ricette) della follia della cucina contemporanea.
Cosa rappresenta Contromamo nella carriera di Antonio Albanese?
«È un lavoro a cui tengo particolarmente. Io mi eccito a fare questo mestiere, e la cosa che più mi piace è esplorare temi diversi a modo mio. In questo specifico caso ho voluto trattare in modo diverso un argomento (quello dell’immigrazione, ndr) che generalmente viene affrontato con drammaticità e durezza. È una materia che invece ha una sua ironia, anche se va rispettata. Sono molto contento del risultato e di come tutti abbiano collaborato: ci tengo molto alla squadra. Poi ho trovato due attori straordinari».
Chi sono queste persone che interpretano Oba e Dalida?
«Sono Alex Fondja e Aude Legastelois, due attori 30enni di Parigi, entrambi straordinari. Considerati i ruoli avevo proprio necessità che fossero due professionisti: Contromano non è un film-documentario dove rappresentare i dolori vissuti attraverso persone vere. Ho fatto un casting in Francia perché, a differenza dell’Italia, lì ci sono ormai tre/quattro generazioni di immigrati: era fondamentale trovare gli interpreti giusti visto che sono i protagonisti assoluti assieme a me. Ora sono tutte e due molto curiosi di venire in Italia per presentare il film e vedere come sarà accolto».
Come avete lavorato sul set? Avete seguito la sceneggiatura o avete lasciato spazio all’improvvisazione?
«Io sono uno che non improvvisa mai, nel senso che mi piace prepararmi molto prima; poi, certo, ci sono sempre delle scene in cui puoi dilungarti o aggiungere delle frasi ma lo faccio poco. Con Alex e Aude ho insistito soprattutto su un aspetto: la grande difficoltà del loro lavoro non era tanto mostrarsi disperati quanto sostenere una leggerezza. Ed è un lavoro molto più difficile rispetto a suscitare la commozione, anche perché la comicità è una delle cose più crudeli e serie che ci siano nel mondo. Per ottenere questa leggerezza abbiamo fatto diverse prove».
Cosa ci puoi dire del tuo personaggio?
«Mario è un omino tranquillo, forse anche troppo; non ha nessuno, vive solo, e possiede un negozio di calzette che è stato costretto a ereditare dal padre. Ha una passione sola: l’orto, che è riuscito a recuperare dal terrazzo di un condominio di Milano. Direi che è un uomo onesto e rassegnato; rassegnato e vulnerabile come è un po’ l’Occidente oggi. Ho fatto un grande lavoro sul corpo in modo da costruire una fisicità quasi neutra».
Che rapporto si crea tra Mario, Oba e sua sorella Dalida?
«Mario è un uomo arido di sentimenti che incontra, proprio grazie a queste due persone, la vita. Non l’allegria, ma propria la vivacità. Mario non è mai uscito da Milano, dalla sua casa, dal suo mondo; con Oba e Dalida intraprende un viaggio direzione Senegal lungo il quale capisce che è bello scoprire, interagire con persone nuove».
Qual è il conflitto che Mario dovrà affrontare nel film?
«Davanti al suo negozio di calzette arriva un extracomunitario, Oba, che apre un negozio di… calzette. Questo, onestamente, può scatenare di tutto, anche reazioni terribili, angosciose. E noi abbiamo scelto, come mi piace fare, una linea paradossale; una linea un po’ sopra le righe, estrema che però nella sua follia racchiude il desiderio di molti: far tornare gli immigrati a casa loro. Del resto, se ognuno di noi riportasse un extracomunitario in Africa il problema non sarebbe risolto?».
Una soluzione che è ovviamente una provocazione…
«Io non dò soluzioni nei miei film perché non le ho. Però credo che il problema nasca alla fonte: noi dobbiamo impegnarci a dare a quella meravigliosa terra che è l’Africa il suo valore. L’Africa ha dei tesori unici: come viene detto nel film, “lì la terra è buona”. Peccato che agli africani non sia mai stata data la possibilità di capirlo, di studiare per questo. Il microscopico giudizio o consiglio veicolato nel film è allora di valorizzare quel territorio. L’idea stessa di A casa contromano, del resto, mi è venuta leggendo di un’associazione che, con pochi euro, dava la possibilità alle famiglie africane di coltivare la propria terra».
Come mai hai scelto Milano come casa di Mario?
«Un po’ perché ho un’adorazione smisurata per Milano (amo profondamente quella città e mi sembrava onesto far partire questa storia da un luogo che apprezzo), un po’ perché Milano è una città che ha una lunga storia di accoglienza e, checché se ne dica, è molto tollerante».
Qualche anno fa, quando ti avevo intervistato per Tutto tutto niente niente, mi avevi detto che uno dei tuoi registi preferiti è Aki Kaurismäki: leggendo la trama di A casa contromano mi sembra di notare diversi elementi che richiamano il suo cinema…
«Io adoro Kaurismäki ed è inevitabile che ci sia un po’ di lui nelle mie storie. Tutti i miei lavori si appoggiano sugli “sguardi” con cui sono cresciuto: ad esempio io ho tutto di Buster Keaton. O, per fare un altro esempio, sono tremendamente affascinato da La Linea di Cavandoli: considero quell’animazione uno dei segni più interessanti del Novecento. Di Kaurismäki mi incanta la grazia, e il particolare tipo di ironia. Sembrerà strano ma i suoi film mi danno gioia: sì, nella loro malinconia straziante mi mettono allegria ».
Perché hai voluto curare anche la regia del film?
«Perché c’erano dei tempi e delle pause che avevo voglia di dirigere in prima persona. Non ti nascondo che mi eccito a fare questo lavoro, mi piace da morire. È stato bellissimo tornare dietro la macchina da presa e vorrei continuare a farlo: è chiaramente più faticoso, ma anche divertente. Io, poi, amo profondamente le immagini, ma cerco sempre di allontanarmi dal “vetrinismo”».
Ossia?
«I registi “da vetrinismo” sono quelli che curano molto solo le immagini, col risultato però di essere freddi».
Nel 2017 sono usciti ben due film in cui recitavi con Paola Cortellesi: Mamma o papà e Come un gatto in tangenziale. Due produzioni che sono andate molto bene al boxoffice: il primo ha guadagnato 4,5 milioni, il secondo addirittura 8,8 milioni. Tutto questo in una situazione non particolarmente rosea per il cinema italiano che nel 2017 ha subito un calo del -46% nelle presenze. Quale è stato il motivo dei vostri successi?
«Quando lavori con un attore o un’attrice si crea un’esperienza, un’intesa. L’intesa tra me e Paola era qualcosa di molto interessante e insieme ci siamo detti: proviamo a svilupparla ancora, a fare subito un altro film. Così abbiamo fatto Come un gatto in tangenziale che, essendo la nostra seconda esperienza insieme, partiva già da un livello buono. È stata questa la nostra carte vincente: sembravamo una coppia da 100 anni. A di là del tema, la forza del film era il legame tra me e Paola; in molti mi hanno detto “Antonio, sembravi veramente innamorato”».
Come giudichi la situazione attuale del cinema italiano: c’è sempre una polarizzazione tra autori e commedia?
«È un tema che c’è da sempre. La situazione del cinema italiano, comunque, non è tanto diversa da quella francese o inglese. È una questione di industria e di soldi: tendenzialmente se si ha una maggiore disposizione economica, si ha più possibilità di realizzare dei prodotti interessanti. Il cinema non è teatro da laboratorio, è un’industria e quindi ha bisogno di sostegno economico. Quello che poi bisogna fare è continuare a nobilitare il cinema perché è anche un’arte altissima oltre a creare un indotto di 100mila lavoratori. Tra le varie iniziative, quella dei 2 euro il martedì l’ho trovata una puttanata senza precedenti. Il cinema, così, lo umili. Se da un lato è vero che la Tv sta offrendo tutto, e c’è Netflix e così dicendo, dall’altro il cinema è un’altra cosa: un tempio, è la condivisione di un luogo e di un momento, lì si crea fermento, lì si incrociano gli sguardi. Tutto questo è bellissimo, e a casa non ce l’hai».
Nei mesi scorsi è uscito anche il tuo primo libro Lenticchie alla Julienne, la storia dello chef Alain Tonné ma soprattutto il racconto esilarante (con ricette) della follia della cucina contemporanea. Be’, in questi 30 anni di carriera hai sperimentato un po’ tutto dal teatro al cinema alla televisione.
«Eh lo so, sono uno che si annoia facilmente. Senza contare che ci sono ancora miliardi di cose che vorrei sperimentare. Lenticchie alla Julienne è nato dieci anni fa ma all’epoca mi sembrava troppo presto per denunciare una follia del genere. A me gli chef non stanno sulle palle, anzi trovo la loro arte meravigliosa, semplicemente sono lo specchio dell’impazzimento generale del nostro Paese».
Guardandoti indietro, come descriveresti il tuo percorso artistico, la tua carriera?
«Io ho fatto un percorso semplice. Il mio lavoro consiste nell’interpretare e raccontare la realtà che mi circonda. Attraverso la mia carriera sto fondamentalmente seguendo il mio Paese, e così in questi 30 anni sono passato dalla dolcezza-timidezza-ingenuità di Epifanio a personaggi che hanno rispecchiato l’imbruttimento della nostra società come il Ministro della Paura o Cetto La Qualunque. Alla fine, io faccio lo stesso lavoro di voi giornalisti: racconto la società. Perché dobbiamo prendere testi di altri e deformarli? Perché dobbiamo mettere in scena un Riccardo III a bordo di una Harley-Davidson? Questo, per me, è una presunzione assoluta, oltre che una banalità estrema; io preferisco fare come il vero Shakespeare e raccontare il mio tempo. Questo secondo me è teatro, questo secondo me è cinema». (Valentina Torlaschi)
Un film che hai visto recentemente al cinema e ti è rimasto impresso?
«Shining: non lo avevo mai visto al cinema. Certo il film non era una sorpresa, ma in sala è stata davvero un’altra cosa per continuare il discorso di prima. Il labirinto di ghiaccio era davvero un labirinto!».
IL FILM
Contromano esce nei cinema italiani il 29 marzo.
Foto: Emilio Lari/01 distribution
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