Aris (Aris Servetalis), un uomo solitario, è una delle tante vittime di una pandemia che causa un’amnesia tanto improvvisa quanto irreversibile. Accetta di prendere parte ad un trattamento sperimentale che prevede una costruzione a tappe di una nuova personalità. Il suo incontro con Anna (Sofia Georgovassili), a sua volta partecipante al trattamento, lo spinge a ripensare il proprio futuro.
Apples, presentato in apertura della sezione Orizzonti alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia e ora disponibile sulla piattaforma MioCinema, è l’ennesimo esempio delle asprezze – di stile, situazioni e contenuti – cui il nuovo cinema greco ha spesso rivolto le sue attenzioni negli ultimi anni. La crisi economica esplosa nel paese ellenico a fine 2009 ha infatti avuto, come reazione evidente, un florilegio di autori radicali, gelidi e non di rado nichilisti, affini alla cosiddetta New Greek Weird Wave: dai provocatori più sfacciati (Alexandros Avranas) alle belle promesse (Babis Makridis), passando ovviamente per un cineasta ormai consacrato e perfino d’esportazione hollywoodiana come Yorgos Lanthimos.
Il protagonista di Apples, Servetalis, aveva recitato proprio in uno dei film più celebrati di Lanthimos (Alps) e quest’esordio alla regia di Christos Nikou, a sua volta allievo e aiuto regia dell’autore in Dogtooth, poggia tutto sulla sua espressione fissa e vacua. Lo sguardo vitreo di Aris, individuo chiamato come l’attore che lo interpreta, è perfetto per restituire la totale sfocatura identitaria di un essere umano inserito in un programma ospedaliero di recupero della memoria, con l’obiettivo, in assenza di parenti o persone che vengono a bussare alle porte dell’istituzione, di non trascorrere troppo tempo in isolamento.
È film aspro e sintonizzato sul presente, Apples, un po’ suo malgrado dato che la gestazione e la scrittura del progetto risalgono a prima della pandemia. Racconta di un’epidemia che coincide con la dispersione e col silenziamento forzato dell’empatia, incastrando la solitudine dell’individuo in un contesto urbano più grande, glaciale e anaffettivo ed estendibile facilmente, nelle evidenti intenzioni metaforiche del racconto, alla Grecia tutta.
L’aspetto più interessante di Apples, aldilà del suo manierismo talvolta eccessivamente ripiegato su se stesso e volutamente rachitico in termini di racconto e simbologie elementari, è però la sua velata (o per meglio dire negata) dimensione da procedural. Le immagini in 4:3 vengono disseminate come indizi e i campi vuoti che affollano la messa in scena sembrano essenzialmente post-it e polaroid per rimettersi in pari coi sentieri poco battuti dei propri percorsi interiori, anche se allo spettatore non viene mai affibbiata, né tantomeno restituita, l’eccitazione o l’intima necessità di tale indagine.
Abbondano in compenso sfocature e non detti che sanno di confessioni in realtà indicibili. Basta guardare il modo tentennante e faticoso con cui è gestita la love story bieca e un po’ laterale del protagonista, che serve a mandare avanti il racconto ed è esposta come se spiassimo i ricordi di qualcun altro, sulla scia di un voyeurismo limpidissimo e, come certa memoria a lungo termine, indubbiamente selettivo. Al netto di qualche imbalsamazione tragicomica di troppo, in linea con una certa scuola autoriale eccessivamente incline a considerare i personaggi pedine e insetti da studiare in vitro, il senso dell’operazione è così comunque chiaro.
Le “mele” del titolo, presenti in molte scene, alludono a una meccanica della rimembranza del gusto che non ha niente a che fare con l’asettica e performante tecnologia della ben nota multinazionale. Si aprono invece, come altri dettagli di regia, al balsamo di certi ricordi infantili e dunque analogici, sfogliando i quali ci si sente doppiamente indifesi ma anche paradossalmente protetti, per ragioni didattiche ma soprattutto terapeutiche.
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