Con Lo squalo, Steven Spielberg ha raggiunto uno dei punti più alti della sua carriera. Anzi, per alcuni il film rappresenta il picco di bravura che il regista non è stato più in grado di eguagliare o superare. Questioni di punti di vista, come sempre, ma c’è una cosa su cui tutti possiamo essere d’accordo: Lo squalo ha cambiato il cinema. O meglio, ne ha rivoluzionato le logiche. Distributive e di marketing. Jaws – questo il titolo originale e dell’omonimo romanzo di Peter Benchley da cui è tratto – è stato infatti il primo esempio di blockbuster estivo. Un film-evento spinto da una campagna promozionale inedita per il periodo (1975), che ha martellato i network nazionali in prima serata con spot da 25-30 secondi, creando un passaparola determinante per convincere il pubblico a stare in coda davanti ai botteghini e a rivedere lo spettacolo anche più di una volta.
La storia dello squalo bianco killer che semina morte lungo la costa di Amity Island ha condizionato il rapporto con l’acqua di intere generazioni. Colpa del lavoro di Spielberg, guidato da un’ispirazione hitchockiana nel tenere alta la tensione: lo squalo ci viene mostrato poco alla volta (modalità adottata anche da Gareth Edwards nel suo reboot di Godzilla, a distanza di 39 anni), strategia calcolata perché meno lo si guarda da vicino, più riesce ad apparire reale. E la colonna sonora implacabile di John Williams tiene sempre sulle spine, stampandosi nella memoria e snervando già alla prima nota.
È un film che da un lato possiede le atmosfere avventurose tanto care a Spielberg e dall’altro diventa la parabola di sopravvivenza di tre uomini contro un tritacarne acquatico che è incarnazione della forza devastante di madre natura. Roy Scheider è lo sceriffo Brody, l’unico di Amity a non sottovalutare la minaccia, Richard Dreyfuss è Matt Hooper, esperto biologo marino, mentre un indimenticabile Robert Shaw è Quint, vecchio lupo di mare che con gli squali ha un conto in sospeso. È contro di loro che si scaglia la bestia, in un duello in cui affiorano tutta la superbia e i limiti dell’uomo.
E pensare che in realtà lo squalo non era altro che un pupazzone meccanico di gomma manovrato con dispositivi idraulici (le meraviglie di Jurassic Park erano ancora lontane). Ne furono preparati tre modelli e uno affondò persino, a causa degli impianti corrosi dall’acqua salata. La costruzione del “mostro” provocò un aumento del budget, complicando non di poco l’intera produzione. Cast e troupe erano sfiniti e una scena, in questo senso, è emblematica: quando Quint, Brody e Hooper bevono intorno al tavolo della loro barca e cantano Show Me the Way to Go Home, il pensiero di essere ancora lontano da casa commosse l’intero team, che si sciolse in un pianto corale.
Spielberg sapeva bene i rischi che correva ed è andato fino in fondo, realizzando un film immortale, che non ci si stanca mai di guardare. Un successo da 470 milioni di dollari nel mondo – un record per l’epoca – con un impatto culturale enorme, basti pensare che la battuta “Ci serve una barca più grossa” (pronunciata da Brody dopo aver visto da vicino lo squalo per la prima volta) si è poi trasformata in un’espressione di uso comune in America, un po’ come “Houston, abbiamo un problema” di Apollo 13.
Tre sequel al seguito, per una quadrilogia interamente disponibile sul catalogo Infinity.
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