Al centro del villaggio… l’ansia, mia coinquilina
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Al centro del villaggio… l’ansia, mia coinquilina

Un vecchio proverbio francese dice, quando si rimettono a posto le cose: “Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio”.

Al centro del villaggio… l’ansia, mia coinquilina

Un vecchio proverbio francese dice, quando si rimettono a posto le cose: “Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio”.

In Francia, tempo fa, i villaggi si costruivano proprio così: partendo dalla chiesa, al centro, e sviluppandosi attorno. Io ho fatto lo stesso. Ho messo la chiesa, cioè me stesso, al centro del mio villaggio e ho cercato di costruirci attorno le amicizie, gli amori, la vita: il villaggio.  Non ho avuto paura di farlo, quando ho cominciato, e poi ne ho avuta a casse ogni giorno, mentre lo facevo.  Anche perché tenere in ordine la chiesa è un casino, anche se il vero problema è il villaggio: fa quello che vuole, senza preoccuparsi di nulla.

Quando sono partito dal paesello non avevo idea di cosa volesse dire fare questo mestiere. Lavoravo per una piccola radio locale e andavo a fare le serate in discoteca mettendo musica. Tornavo alle sei di mattina dal “Divinae Follie” di Bisceglie e andavo dritto a fare il mio turno di servizio civile alla Croce Bianca.

Arrivavo sotto casa di Piero alle sei meno dieci con la mia Honda Accord con l’impianto a gas e lo caricavo. Indossavo la mia divisa azzurra con le bande argento-catarifrangente, avevo gli occhiali da sole da maranza degli anni 2000 anche se fuori era buio pesto e lo stereo passava la peggio roba pop di quegli anni a un volume importante.  Troppo, perché dopo una notte con le cuffie e la cassa sotto i piedi, nelle orecchie avevo ancora i Paps’n’ Skar a pompare nelle casse e non capivo più il volume del mondo attorno. Lo trovavo a fumare, Piero, e a dirmi di aver sentito il volume della musica dacché avevo svoltato nella sua strada trecento metri prima. Accostavo. Tunztunz- tunz. Mi guardava. Abbassavo il finestrino. Urlavo. «Che cazzo urli», rispondeva lui. Buttava la sigaretta e saliva in macchina. Spegneva la radio, mi toglieva gli occhiali e mi offriva un caffè. 

Ecco, arrivato al centro sperimentale ho capito che non funzionava proprio così. E sono passato al lato oscuro: lavoro, lavoro, lavoro. E poi ancora lavoro. Niente più notti sveglio a fare casino. Bastava l’ansia. Da allora viviamo insieme, io e l’ansia. Non se ne va. Ci ho provato, eh. Tanto. E lei niente, sta lì. Di giorno e di notte. Che chiede. Hai scritto il “Belushi vive” per Best Movie? Hai letto il libro che dovevi leggere? Hai studiato quella scena?  Ma è per lunedì prossimo! Tu studiala adesso. Hai scritto quella mail? E quel messaggio? Hai chiamato quel regista?  Ma sono le quattro di mattina! Bene, così capirà che ci tieni così tanto da non dormirci. Lo chiamo. Mi risponde.  Non dormiva nemmeno lui. L’ansia è così, è condivisa. Specie tra quelli che fanno questo lavoro e ci tengono. E allora via, tutti a pensare alla bella vita, alle droghe, all’alcol. Alla promiscuità.

Certo. I miei colleghi migliori, quelli proprio bravi, alle dieci di sera sono a letto da ore. Si svegliano alle cinque.  Mangiano poco e bevono solo acqua.  Poi, oh, ogni tanto fai serata. E la paghi per una settimana. Faccio tardi anche io, per sentirmi giovane. Per sentirmi vivo. Ma le notti migliori sono quelle che passo a scrivere, leggere, guardare un film, preparare una scena che giro tra undici giorni. Ne Il maledetto c’è un monologo di due pagine che abbiamo girato la penultima settimana di riprese. Lo sapevo a memoria due giorni prima di iniziarle, le riprese.  Cinque settimane prima rispetto al suo programma. Buona la prima.  Facciamone un’altra per precauzione.  Andate a raccontarlo al ragazzo nella Accord che beve il caffè alla stazione di servizio muovendo la testa perché ha ancora la musica nel cervello. A me non crederebbe mai. Ed è per questo che mi manca così tanto.   

 

© Samba P.C., Luna Films, Ramaco Anstalt (1)

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