In gara con se stessi
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In gara con se stessi

In gara con se stessi

L’arte non ha un traguardo. È solo una gara con se stessi. Non contro se stessi. Si può essere fieri avversari, del proprio io. La bravura sta nel non diventarne nemici.

È un’estate torrida, come tutte le estati. Mi ricordo che l’unica estate piovosa e fredda degli ultimi trent’anni che ho vissuto è stata quella in cui ho girato uno dei due film peggiori che ho fatto. Una di quelle cose che non avrei mai dovuto fare e che ho accettato. Che errore.

Pioveva sempre e noi stavamo in un campeggio. Mi entrava l’acqua ovunque e dormivo col piumone. L’unica volta in vita mia in cui ho detto: “Basta, mollo. Me ne vado a casa.” Giulia, la mia ragazza di allora, che oggi è forse la mia migliore amica e se scopre che l’ho citata si incazza, mi convinse a restare. Che ce l’avrei fatta. E finii il film. E capii un sacco di cose. Il problema è che me le dimentico. E, per fortuna, c’è Giulia che me le ricorda. Che poi, alla fine, il succo sta sempre nel ricordarsi che è vero che ho studiato tanto, è vero che ho passato la vita a impegnarmi e migliorare, è vero che c’è sangue e sudore nel mio passato, ma non mi sono iscritto a medicina e oggi non faccio il cardiochirurgo. Eppure, quando mi gioco bene le mie carte, guadagno anche più di lui. E un po’ mi vergogno. Come mi vergogno di aver fatto quel film e poi di averne fatto un altro qualche anno dopo.

Le carriere si costruiscono coi no, mi disse una volta un uomo saggio. Coi sì, però, si costruiscono le case nelle isolette siciliane. E allora bisogna pure farsi due domande. Magari quattro. Facciamo tre: chi me lo fa fare? Perché? Ne vale la pena? E basta dare una soluzione a queste tre domande e si capisce se rispondere sì o no. E poi, ve lo giuro, dopo un sì, l’unica cosa che ha senso è prendere la pallina e lanciarla nella ruota della roulette. E incrociare le dita. Perché partono tante di quelle variabili che nemmeno Stephen Hawking potrebbe calcolarle. E allora tu ti arrovelli e chiedi consiglio a chiunque e ognuno ti dice una cosa diversa. E tu pensi, valuti, capisci, rileggi, chiedi informazioni, parli di nuovo col regista e poi col produttore. E non dormi, e ti riempi di dubbi, e scopri la sindrome delle gambe senza riposo, che è quando inizi a scalciare la notte senza controllo. Che per fortuna dormo da solo, ma la mattina dopo, alla sveglia, non sei più su un materasso, ma è un campo di battaglia. E poi dici no, e te ne penti. O dici sì, e te ne penti. Ma almeno hai qualcuno a cui dare la colpa, perché hai chiesto anche al postino, quando ti ha portato la multa, cosa ne pensasse.

È vero, non sono in sala operatoria e non sto salvando la vita alle persone. Ma una vita in gioco c’è sempre: la mia. Quella cosa per cui ti incupisci quando sbagli e chi ti sta accanto si stufa, di vederti sempre oscuro. E cerca l’interruttore e lo trova lontano da te. Ma io sono il mio lavoro e viceversa. Non mi stacco, sono come una figurina panini quando ti cade un calciatore al volo sull’album su un posto sbagliato e per staccarlo, quel piccolo lembo di adesivo piazzato, strappi tre pagine, due scudetti e tutta la Sampdoria, che sta in mezzo all’album e si stacca sempre. E poi ricominci. Perché no, non hai un traguardo. Sei solo in gara con te stesso. E almeno stavolta, almeno questa, la voglio vincere.

 

© Shutterstock (1) Columbia Pictures, Intermedia, Magnet Productions (1)

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