Lievito madre
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Lievito madre

Lievito madre

Mercoledì 18 marzo 2020. Primo pomeriggio. Sei a casa e non puoi fare nient’altro.

Da una decina di giorni ci hanno detto che da casa non si può uscire perché fuori c’è una pandemia. Sei chiuso in casa e non sai che fare. E allora panifichi. Fai quello che stanno facendo tutti: il lievito madre. E da quello decidi di fare pane e pizze come se non ci fosse un domani.

Cerchi su Google come fare ’sto maledetto lievito madre e da quel punto in poi cominci ad “allevarlo” come il cucciolo di casa. Lui inacidisce al terzo giorno, altri giorni gonfia come me dopo un matrimonio; provi a fare un impasto partendo da quel lievito e fa un po’ quello che gli pare: si gonfia, esplode, non cresce, diventa poco elastico, si ingrippa e cuoce male. Fa quello che vuole, il lievito. Perché è vivo. Pieno di organismi microbici viventi. Che vivono e per questo si adattano alla temperatura e a quanto si è in grado di accudirli.

Un film è uguale. Fermenta, vive, va nelle direzioni che crede più giuste. La sceneggiatura, che è qualcosa di ferreo e di intoccabile fino al giorno prima dell’inizio delle riprese, succede che più si va avanti e più scene ti “porti a casa”. A quel punto, le scene esistono e saranno quelle per sempre, non saranno più su carta.

Questo costringe ogni volta il regista e gli attori – quelli bravi, quelli che studiano, quelli a cui interessa – a fare i conti con quello che c’è. A fare i conti col fatto che la location che poi abbiamo usato non era esattamente quella pensata, a fare i conti col fatto che quella notte pioveva e abbiamo dovuto girare per forza, col fatto che quell’oggetto non era in scena, che non abbiamo trovato esattamente il “prop” che cercavamo oppure che l’arredatrice ha avuto un’idea meravigliosa e allora noi l’abbiamo sposata in pieno, che il costumista ha trovato un abito perfetto e incredibile che ha cambiato l’approccio dell’attore al personaggio perchè magari gli crea un impedimento; devi fare i conti col fatto che la luce era così bella che abbiamo girato un’inquadratura in più che alla fine il regista vuole montare e che però ti costringe a trovare un gancio adesso per poterla rendere “usabile”.

E allora succede che gli ultimi giorni, nelle ultimissime settimane, ti ritrovi la sera prima col regista, sul tavolo della hall dell’albergo, a riscrivere tutte le battute delle scene del giorno dopo. Se sei fortunato, con voi c’è anche la segretaria di edizione che scuote la testa per tutto il tempo. Non chiedermi perché: lo fa e basta. Può dire “Non funziona per niente” o dire “È un’idea bellissima” con lo stesso tono, identico, continuando a scuotere la testa. Mah.

Dicevo: è il momento in cui il film ti dice che vive. Che sta vivendo. Che è lievitato in una maniera in cui non ti aspettavi e prima di essere infornato ha bisogno di essere di nuovo impastato e steso. Perché quando saranno finite le riprese, quando sarà in forno, in sala di montaggio, potrai solo iniziare a sentirne il profumo. E sarà difficilissimo, a quel punto, provare a rimediare. Difficile difficile. Non impossibile, certo, ma ne varrà la pena, a quel punto? Già devi stare attento che non si bruci, che non si sgonfi, che possa cuocere il giusto…

E allora non puoi mai staccare la testa, dal film, durante le riprese. Non puoi mai. Perché altrimenti sarà impossibile fare un buon pane da portare al cinema. E ci vuole poco a finire a casa davanti alla Tv. Comodi comodi, a mangiare le brioches.

 

© Shutterstock (1), C – Centro Sperimentale di Cinematografia (1)

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