Me lo ricordo benissimo. Come fosse oggi. E invece era il 2005, forse il 2006. Io ero ancora un allievo al Centro Sperimentale ma, anche spinto un po’ dai miei docenti, avevo iniziato a guardare fuori.
Mi avevano preso per una serie che si chiamava L’onore e il rispetto qualche mese prima. Niente di che, sei pose, ma per me erano tantissime! Insomma, avevo iniziato a lavorare. Non so come, ma mi chiamarono a fare due pose, un ruolo piccolo piccolo pagato molto molto poco, in una fiction che sarebbe andata poi su Rai Uno. E mi fermo qui, non vi do troppi riferimenti.
Arrivo sul set senza prova costume preventiva, tanto facevo un poliziotto della scientifica: avevo il grembiule a coprire tutto. Ero un bimbo, avrò avuto 24/25 anni. Ero terrorizzato. Non conoscevo nessuno e comunque subivo ovviamente ancora moltissimo il fascino dei miei colleghi più grandi, più anziani, più famosi. Quella scena, però, era con un mio collega giovane, seppur già conosciuto, ed era molto semplice: entrava, ci scambiavamo due battute sul caso, usciva. Stop. Azione. Entra, dice la sua battuta, rispondo, stop. Il regista viene da me incazzato nero. «Ma come cazzo la dici?». Io lo guardo. Non sapevo cosa rispondere. Mi dice come devo dire la battuta, l’intonazione, e se ne va. Azione. Entra, battuta, rispondo, stop. «Ma questo qui non capisce un cazzo!» urla. Arriva. Mi ripete la battuta, come devo dirla. Io ero nel panico più assoluto, anche perché pensavo di dirla bene. Il mio collega in scena vede il panico nei miei occhi. Mi stringe l’avambraccio «Non ti preoccupare, va tutto bene, la dici bene, non è un problema tuo». Azione, entra, battuta, rispondo, stop. «Ma allora sei cretino…» dice, alzandosi dalla sedia, venendomi incontro e puntandomi il dito. «Oh, è facile. Ma sei italiano?» E mi ripete la battuta. Io, semplicemente, terrorizzato.
Avrei voluto piangere, pensavo di non essere capace, che avevo buttato gli ultimi dieci anni della mia vita a inseguire un sogno che non meritavo, perché non lo sapevo fare. Tutti quelli che a scuola mi facevano i complimenti avevano preso un abbaglio. Non ero capace. Inizio a ripetere la battuta sottovoce, convinto di averla trovata, quell’intonazione. E poi lì succede quello che non diresti mai. Alzo lo sguardo da terra e cerco il regista, per capire se, andando via, aveva altro da dirmi. Si siede. E ride. Di gusto. Dà di gomito all’uomo accanto a lui, che risponde con un sorriso di circostanza. Mi indica sul monitor: «Guardalo, guardalo, come ripete la battuta…».
Attorno a lui il gelo. Riabbasso la testa in tempo. Sorrido anche io. Azione, entra, battuta, rispondo, risponde, rispondo, risponde, esce. Stop, buona. Finalmente, dice.
L’aiuto regista mi porta nel bagno, dove avrei dovuto cambiarmi perché figuriamoci se avevo un camerino. Nel frattempo, rido. Ripongo con cura i vestiti, esco, saluto e scappo. Salgo in metro e comincio a piangere come un disperato. E per fortuna, la metro è il posto migliore in cui farlo: a nessuno interesserà nulla. Sarai magicamente solo, nascosto in mezzo alla gente. Torno a casa angosciato da un’unica notizia: avevo un’altra posa. E con la star della fiction! Non ci dormii per notti e notti, terrorizzato da quello che sarebbe potuto succedere. E poi arrivai sul set. E scoprii che, quando si girano queste fiction così grandi, non c’è solo una unità a lavorarci su: ce ne sono almeno due. Quella mattina, a noi, toccava la seconda unità: un altro regista, un altro DOP, tutta un’altra troupe.
La giornata scorre liscia e in un paio di ciak risolviamo tutto. Esco dal set e, passando, trovo il regista “principale” che sta fumando il sigaro con altre persone. Gli passo accanto, senza guardarlo, e dico solo «arrivederci». Mi rispondono tutti e tre, molto educatamente. Mi giro, guardo il regista. Lui incrocia il mio sguardo e non ha particolari reazioni. Fa un cenno di saluto con la testa. Nemmeno si ricordava chi fossi. Ero stato solo un passatempo per un quarto d’ora un pomeriggio qualche giorno prima. Me lo ricordo benissimo. Come fosse oggi. E invece sono passate tante tante lune. Alcune anche piene. Altre come artigliate sul cielo nero. E oh, almeno fino ad ora, siamo sopravvissuti a tutte.
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