Gertrude Bell (Nicole Kidman) non è una donna del suo tempo. Non ha un fidanzato, e con una laurea a pieni voti a Oxford non riesce a entrare nei controrni delle etichette e delle consuetudini della Gran Bretagna alto borghese della fine dell’Ottocento. Insofferente alle prescrizioni del buon costume, Gertrude sogna l’Oriente, l’India, l’Arabia, l’Iran, nomi esotici che, per l’epoca, appartengono, nel senso comune, più a un immaginario incantato che non a un sapere geografico. Grazie a uno zio, console a Teheran, Gertrude viene accontentata con riluttanza dalla famiglia e inizia così, lontano dalle sue origini, una nuova stagione alla scoperta di se stessa, dell’amore (trovato in Henry Cadogan/James Franco), e, infine, della sofferenza in seguito alla perdita dell’uomo a cui si era promessa. L’epifania della morte la conduce verso una più intima e consapevole discesa nella propria anima: Gertrude si abbandona completamente al deserto, diventando esploratrice di geografie di sabbia, archeologa e etnografa di quelle civiltà beduine, che gli Imperi coloniali nel frattempo si spartivano a tavolino.
Queen of the Desert è il primo racconto biografico che Werner Herzog dedica a una donna, un personaggio che tuttavia non tradisce quella galleria di ritratti eccezionali (Aguirre, Fitzcarraldo, Grizzly Man) cui ci ha abituato il regista. Della figura di Gertrude Bell, politica e diplomatica che contribuì, insieme a Lawrence d’Arabia/Robert Pattinson, all’affermazione dell’Iran come stato moderno, Herzog predilige da subito l’aspetto meno storiografico e più privato, quello intimamente femminile della poetessa e della scrittrice. «Ho conosciuto Gertrude Bell grazie a un amico, ho letto i suoi diari, i suoi epistolari e ne sono rimasto immediatamente affascinato, sentendo subito di dover fare un film che rendesse attraverso il paesaggio la poesia di questa donna meravigliosa». In effetti, questo confronto vergine con la femminilità, e in particolare con un personaggio dalla portata sensuale come quello di Gertrude, diventa in Queen of the Desert non tanto un omaggio, quanto una confessione di perduto innamoramento.
Ma le conseguenze dell’amore non vanno sottovalutate. E in questo caso non hanno risultati eccellenti: Herzog, in questo film che mette sempre al centro la figura di Gertrude e che lascia in disparte, talvolta trascurando la loro verosimiglianza, i personaggi di contorno, finisce per rimanere vittima di questo primo disorientato sentimento, navigando con una bussola che segue la rotta di un trasporto talvolta commovente, altre volte, inaspettatamente ingenuo. Per chi ama Herzog, difficilmente si riconosceranno alcuni passaggi e alcune scelte tecniche, che forse, al contrario, non dispiaceranno al pubblico a cui il regista è invece meno noto.
Là dove sul piano estetico si rischia di non percepire la sua mano, rimangono invece immutate le ragioni filosofiche che hanno generato il film: nella vicenda di Gertrude Bell, Herzog vede in moto la forza profondamente Romantica del Destino e la riversa sul racconto, come d’abitudine, affrontando le stesse condizioni in cui la storia è nata. Ed è questa buona fede, questo realismo cercato dentro le cose e negli accidenti (il film è stato girato in Marocco, Nikole Kidman ha davvero imparato a cavalcare un cammello e ha dormito sotto le stelle come la protagonista) che rende Queen of the Desert, forse non il lavoro più riuscito di Herzog, ma comunque una prima prova con il femminile che sarà replicata e che, forse, potrà maturare. «Avrei dovuto fare film con protagoniste donne ben prima: sono stato affascinato in passato dai personaggi maschili, ma questa scoperta mi porta a credere che continuerò su questo percorso».
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