C’è un senso di smarrimento in questa edizione della Berlinale, fatta di grandi nomi e di grandi maestri. Un senso che procede dalla visione di film dai tratti irriconoscibili, oppure dalla fisionomia così evidente da sembrare pedissequi e, dunque, vuoti.
È successo con Herzog che, con Queen of the Desert ha raccontato il romanzesco romantico con un effetto straniante per chi è abituato all’estetica del regista; ed è successo, in modo opposto ma speculare a Malick che, con Knight of Cups, ha reiterato lo stesso linguaggio e le stesse domande che la sua ricerca cinematografica si è posta di recente, senza trovare però soluzioni nuove.
A questi titoli, i più rilevanti della kermesse, si aggiunge oggi anche Every Thing Will be Fine di Wim Wenders, pellicola attesa a maggior ragione nell’edizione in cui il Festival premia Wenders con l’Orso d’Oro alla carriera, dedicandogli una retrospettiva dei suoi lavori più noti e più pregevoli. Quello presentato fuori concorso, non appartiene però alla categoria, collocandosi subito tra la schiera, piuttosto nutrita, delle delusioni di questa edizione.
James Franco è uno scrittore che, in crisi di coppia, cerca senza risultato l’ispirazione per il suo prossimo romanzo in un villaggio interamente ricoperto di neve, un paesaggio à la Fargo, dove dorme in una baracca vessata dai venti e dalla bufera. Un giorno investe per accidente un bambino, mentre il suo gemello esce indenne dall’impatto. Da quel momento, e per gli anni a seguire, tra la vita dello scrittore, quella della madre dei piccoli (Charlotte Gainsbourg), che pure non si frequenteranno se non in un’unica occasione, e infine quella del sopravvissuto, si intesserà una trama di corrispondenze invisibili, fatta di lutto, dolore, perdono e riconciliazione, fino all’elaborazione del trauma e alla sua sublimazione finale.
«Il titolo ha un’allusione magica e fiabesca: la consapevolezza che tutto andrà bene», spiega Wenders. «Ma abbiamo voluto mantenere questo tema quanto più vicino alla realtà, con una prospettiva che non sfociasse nel racconto di fantasia. I due personaggi sono sconosciuti, si trovano a condividere un’esperienza di lutto e così diventano responsabili l’uno dell’altro. Per raccontare questi due poli, il 3D è stata la lente magica e magnificante con di cui ci siamo serviti»
Con Every Thing Will Be Fine, Wim Wenders torna alla narrazione dopo una lunga parentesi nel documentario. Il suo ultimo lavoro interamente fictional era stato Palermo Shooting, nel 2008, che ancora portava avanti, pur senza risultati encomiabili, sia la riflessione sullo sguardo cinematografico iniziata idealmente con Lo stato delle cose e proseguita poi con Lisbon Story, sia una ricerca sullo spazio visivo e sull’identità dei luoghi, fil rouge che lega tanto Il cielo sopra Berlino quanto, soprattutto, l’esplorazione geografica di Fino alla fine del mondo.
Every Thing Will Be Fine non intraprende invece nessuno di questi percorsi, ma non ne apre nemmeno di nuovi. Se resiste, in filigrana, lo scheletro di una riflessione sulla distanza, sul mondo invisibile che si cela dietro le cose (nel film i personaggi sono spesso inquadrati da dietro un vetro, o incorniciati da una finestra) e su un bisogno umano ed ecumenico di consolazione, dall’altra parte il discorso, sia filmico, sia narrativo, manca di spessore e di finalità.
A questo contribuiscono tanto James Franco, che inizia a far sentire l’eccezionale ricorsività della sua presenza al Festival, e che qui perde di originalità e mordente, tanto una sceneggiatura fragile, che riduce all’inconsistenza alcune figure, come quelle di Charlotte Gainsbourg e di Rachel McAdams, apparizioni di fantasmi in una narrazione dove domina il senso di smarrimento. Indeciso tra i toni della fiaba (atmosfere accentuate da un 3D che, contrariamente a Pina, nulla ha da rivelare sul corpo e sulla profondità di campo) e una descrizione del paesaggio e degli spazi domestici punteggiata da una colonna sonora didascalica e mimetica, scritta da Alexandre Desplat, Every Thing Will be Fine è il prodotto irriconoscibile di un autore che qui sembra aver perso l’orientamento.
A questo punto, nella serie di delusioni a catena degli ultimi giorni, viene da porsi una domanda. In un inquadramento del cinema d’essai che sempre più, tra i suoi nomi più autorevoli, interseca tanto il documentario, tanto territori più sperimentali, come la video arte, è possibile trovare nel racconto di finzione una radice estetica ancora valida? In un cinema mainstream, che gioca con i generi del racconto con una prospettiva istituzionale, e a fronte del panorama indie che se ne appropria attraverso una ri-colonizzazione e una rilettura delle componenti stilistiche, l’autorialità narrativa è ancora una prospettiva replicabile in chiave inedita? A meno di quegli autori che fanno del cinema il sistema esplicativo per esprimere o per rispondere a un’ossessione, i registi più eclettici, come appunto Herzog e Wenders, sapranno ancora inventare il mondo con gli occhi del racconto? O, forse, è la realtà stessa a materializzarsi in una nuova forma attraverso il loro sguardo documentale?
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