Ha 93 anni e il passo incerto di quell’età lo Sherlock Holmes di Bill Condon che torna in Inghilterra dopo un viaggio che lo ha portato fino in Giappone alla ricerca di una pianta che possa arrestare il deterioramento della sua memoria, che insieme a ragione e logica è stata il pilastro della sua esistenza. Ma mentre la mente forse declina, sono i sentimenti a riaffacciarsi potenti. Quelli che lo riportano a un caso di vent’anni prima, e quelli che inaspettatamente gli fanno scoprire l’amicizia con il giovanissimo Roger, il figlio della sua governante. Insieme a lui Holmes si mette a ricerca degli indizi con cui ricostruire quella storia perduta e forse i frammenti di un’esistenza giunta fin quasi alla fine…
Gandalf, Magneto e ora Sherlock Holmes. Mancava giusto un’ultima icona per completare la raccolta di personaggi indimenticabili che Sir Ian McKellen ha regalato al grande pubblico, quello che forse non conosce e non ricorda le sue moltissime altre interpretazioni, sul grande schermo e sul palco del teatro.
Qui grazie alla nuova fruttuosa collaborazione con Bill Condon (la prima era stata nel bellissimo God and Monsters) l’attore inglese costruisce la sua personalissima versione del più famoso detective di tutti i tempi, figura letteraria che negli ultimi anni, grazie soprattutto allo show BBC Sherlock , ha conosciuto un rilancio mondiale.
Il film di Condon prende le mosse da un racconto di Mich Cullin, A Slight Trick of the Mind, dove Holmes, a 93 anni, deve affrontare il declino della sua mente eccezionale e nel farlo fare i conti con ciò che nella sua carriera e nella sua vita ha sempre tenuto lontano: i sentimento, l’amore, l’amicizia, tutto ciò che in qualche modo ha sempre ritenuto secondario rispetto alla logica tagliente e all’orgoglio che questa gli regalava. È l’incontro con un bambino (il giovanissimo Milo Parker, dimostratosi in conferenza stampa, super smart quanto il suo personaggio) che gli dà la possibilità, o forse anche il coraggio, di riprendere in mano un caso, anzi il caso che pur risolto ha messo fine alla sua carriera.
Per Condon il suo film si può riassumere in una massima: « Don’t miss your life. Quando la ragione e la logica vengono meno è allora che le emozioni vengono fuori più potenti ed è allora che anche il grande Sherlock Holmes deve fare i conti con esse».
La pellicola, poetica, ma capace anche di giocare benissimo la tensione tra mito e realtà (ancora di più trattandosi del mito e della realtà di un personaggio di finzione) , è finalmente un esempio di come un film in costume possa e debba conquistare un grande pubblico.
Del resto il film ha molte frecce al suo arco: non solo gli scambi sempre brillanti tra Holmes/McKellen e il suo piccolo discepolo (resi solo più intensi dagli occasionali cedimenti del grande detective, che si trova ad appoggiarsi – mentalmente e fisicamente- sempre di più al ragazzino), ma anche una bravissima Laura Linney nei panni della governante, madre del piccolo Roger, scorbutica e segnata da un profondo dolore.
C’è anche il senso di un lutto personale e collettivo (la vicenda si svolge all’indomani del secondo conflitto mondiale e il personaggio della Linney è per l’appunto una vedova di guerra) in questa storia crepuscolare che si muove attraverso più piani temporali, guidata dalla memoria declinante di Holmes.
Ed è per questo che quando la forza degli indizi gli viene meno Mr. Holmes può riscoprire e appropriarsi del potere della finzione letteraria (di cui fino a quel momento è stato « vittima», lui che alla pipa ha sempre preferito il sigaro e non ha mai indossato il caratteristico cappellino) regalando a chi lo circonda, ma forse perfino a se stesso, un meritato lieto fine.
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