Quando era uscito il trailer, nel giorno dell’annuncio della partecipazione della pellicola alla 65esima Berlinale, Knight of Cups, l’ultimo lavoro di Terrence Malick era sembrato una riflessione perfettamente riconoscibile all’interno della nuova linea di pensiero iniziata dall’autore con The Tree of life, ma allo stesso tempo un prodotto profondamente diverso.
Ambientazioni Hollywoodiane, musiche estranee alla composizione orchestrale classica e la legione del popolo dei party, personaggi promiscui e carnevaleschi, facevano pregustare una pellicola che, pur nel solco della filosofia votata alle domande sull’esistenza, all’immersione e alla perdita dei suoi protagonisti nel paesaggio, luogo dell’anima, si sarebbe interrogata su qualcosa di inedito per l’occhio del regista: il mondo dello spettacolo. Anzi, a voler fare una riflessione di sistema, si poteva azzardare di inserire questo particolare esperimento in un corpus di film che, da La Grande Bellezza a Maps to the Stars di Cronenberg, hanno indagato in questi anni sulla solitudine e sul disagio di Glamorama.
La trama della pellicola, diffusa solo qualche giorno prima della presentazione al Festival, raccontava, in chiave allegorica, la perdita di un uomo affermato, Rick/Christian Bale, da se stesso e la sua ricerca, in un’angosciosa vacanza dall’esistenza, dove è vittima del successo e dove è schiacciato dalla vacuità dei suoi incontri e degli spazi che abita, della verità della vita. «Questo film ha avuto una lunga gestazione», spiega Bale «si parla di una persona che ha realizzato tutti i suoi sogni, ma che adesso sente di aver perso la sua anima e dunque si mette in viaggio per poterla recuperare».
Il percorso filosofico iniziato con The Tree of Life, che pure aspirava a dare una risposta personale agli interrogativi di ordine cosmologico che da sempre il pensiero occidentale si pone, poi proseguito con To The Wonder, versione speculare, meno ideale e terrena del film precedente, e forse già per questo non particolarmente riuscita, sembra giungere in Knight of Cups non, come ci si attenderebbe, a una soluzione o a una pacificazione, ma a una reiterazione della domanda fondamentale. Che però, nel gioco di specchi, di rimandi concettuali spesso autocelebrativi della filmografia precedente, finisce per subire uno svuotamento delle sue stesse premesse.
L’estetica di Malick, qua ridotta al suo grado zero, diventa più una retorica che un linguaggio: la scrittura cinematografica che scarabocchia sull’immagine come una penna, i movimenti di macchina che, piroettando, ora pedinano i personaggi, ora li lambiscono. Oltre che luoghi e figure sceniche già viste: la natura desertica, il mare, l’inquadratura dal basso di un corpo immerso in una piscina, la nuca prima del volto, e, poi, la donna che danza, l’uomo che guarda smarrito, il vento tra i capelli, la sessualità mai esplicita, lo spazio domestico scarnificato e asettico, la voce fuori campo che racconta il dramma di un’anima, la camera da letto, l’altare, lo spazio urbano postmoderno. A questa giustapposizione di quadri “belli” solo nella composizione, si aggiunge per la prima volta un compiaciuto voyeurismo dei corpi femminili, un’abbondanza di nudi che, più che riaffermare la condizione di vuoto affettivo e di smarrimento del protagonista, depistano lo spettatore fino a generare un fastidio tutt’altro che pruriginoso.
A fare da sfondo a questa serie di déjà vu, Los Angeles, microcosmo e metafora spaziale della pellicola. «Il film riflette, nella sua esplorazione pesaggistica della città, la grande diversità di Los Angeles», racconta Natalie Portman, una delle figure femminili “salvifiche e angeliche” della pellicola. «Da questa coesistenza di situazioni estreme nello stesso contesto, è stato possibile far trasparire sia la superficialità delle feste di Hollywood, da cui parte la ricerca del protagonista, sia gli sprazzi di luce che vengono simbolizzati dalla generosità e dall’umanità di alcune figure, ad esempio quella di Cate Blanchett, che interpreta la prima moglie di Rick.»
Se però in The Tree of Life il finale restava aperto, ma riusciva a pacificare il mondo dei viventi attraverso il misticismo della fede e se To The Wonder dichiarava già nel titolo il rimedio a un’esistenza tragica: “amare fino alla meraviglia”, Knight of Cups, nel suo disordine anti-narrativo, forse frutto della lunghissima post-produzione del film, rimane su un piano che non riesce a mettere a fuoco il suo obiettivo e che, anzi, rischia di ripiegare le questioni di Malick a interrogativi autoreferenziali.
Considerata la sorprendente quanto improvvisa prolificità del regista, che sta ultimando il suo Voyage of Time e ha terminato le riprese del film al momento senza titolo con Rooney Mara e Ryan Gosling, si spera che l’impasse raggiunto con questo ultimo lavoro venga superato. E che i suoi interrogativi si orientino a una nuova dialettica.
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