Doveva essere la seduta di un pomeriggio, ma James Lord, giornalista americano in visita a Parigi, non sapeva che quegli incontri con l’artista svizzero (conosciuto per aver scritto un paio di articoli su di lui) si sarebbero protratti per diverse settimane, in un’avventura di conoscenza fatta di prove ed errori, esaltazione e disappunto, nella creazione di un capolavoro incompiuto che sintetizza la poetica di una vita.
«Non trovo interessanti i biopic tradizionali, che per riassumere una vita intera devono rinunciare ai dettagli e alla profondità» ha dichiarato il registra Stanley Tucci, che alla realizzazione del film ha dedicato 10 anni della sua vita. «Cogliere un segmento di una vita, come in questo caso, appena 18 giorni, mi ha permesso di esplorare i dettagli, di costruire attraverso di essi un microcosmo che coglie gli aspetti essenziali della vita e dell’arte di Giacometti».
A dar corpo a Giacometti con straordinaria capacità di immedesimazione è l’attore australiano Geoffrey Rush, assente alla conferenza stampa ma presente sul red carpet della Berlinale. «Ho passato a Geoffrey molto materiale un anno prima di cominciare a girare e poi abbiamo avuto una settimana per provare – un metodo che per me è ideale – ma credo che una delle chiavi di questa straordinaria interpretazione sia che Geoffrey ha molto sense of humor e lo stesso Giacometti era una persona molto divertente e spiritosa».
Spiritosa, ma anche compressa, come nel suo rapporto con le donne, la moglie Annette e la modella Caroline, una prostituta con cui intrattenne una lunga relazione. A osservare lo strano menage, con stupore e curiosità, l’altro modello, lo scrittore James Lord (nel film ha il fisico atletico e lo sguardo acuto di Armie Hammer), che da quell’esperienza eccezionale trasse il libro che è servito a Tucci come punto di partenza. «Un ottimo punto di partenza, di cui ho sposato completamente la struttura, i 18 giorni del lavoro, prendendo spunto anche per i dialoghi, ma ampliando, espandendo e drammatizzando a partire da frasi particolari, anche per uscire dallo spazio ristretto dello studio dell’artista».
Uno spazio che Tucci ha ricostruito, con la collaborazione essenziale del direttore della fotografia Danny Cohen, ispirandosi alla palette di colori propria di Giacometti (neri, grigi e bianchi), dopo aver a lungo accarezzato l’idea di girare il film in bianco e nero, rinunciandovi alla fine perché avrebbe reso la realizzazione e soprattutto la distribuzione della pellicola ancora più complessa.
Ecco allora che nello studio (dove il regista ha lavorato con una doppia macchina da presa, ma riducendo al minimo l’ingombro delle attrezzature, luci comprese, per dare libertà agli attori) si ha una quasi totale monocromaticità, mentre il colore ritorna nei dettagli (il rossetto di Caroline, il vestito di Annette) e negli ambienti esterni come il caffè o la campagna di un occasionale giro in auto. Uno stile visivo che rifugge il facile romanticismo d’epoca, e che invece si richiama al realismo della nouvelle vague.
Final Portrait riesce ad essere così un film che parla d’arte senza mai annoiare perché lo fa attraverso i commenti estemporanei, ma sempre acuti, anche quando tradiscono un po’ di sana competizione (con Picasso, per esempio) di un artista originale e mai soddisfatto, che fece della propria incapacità di “finire” un opera il suo tratto distintivo. Qui la nostra recensione.
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