Girare un film in una stanza non significa per forza girare un film teatrale, c’è invece molta consapevolezza dell’immagine in The Final Portrait, uno sguardo orgogliosamente cinematografico, come se lo stile di Alberto Giacometti (qui interpretato da Geoffrey Rush) tracimasse le sue opere e allagasse l’inquadratura, mettendo i corpi a confronto con le sculture, e i colori dentro e fuori le tele. Cercando simmetrie e contrasti simbolici. Non sarebbe neppure un’intuizione straordinaria o nuova quella di Stanley Tucci – qui regista per la quinta volta – se non fosse che l’opera di Giacometti viene “esposta” nella sua fase finale; siamo all’inizio degli anni ’60, quando l’artista ha ormai abbandonato da tempo il surrealismo e si è in qualche modo riconvertito al mondo, mischiando la sua arte con i corpi che lo circondano (un’amica prostituta, la moglie francese) e acquisendo un’inflessione esistenzialista.
Questa esposizione è per semplicità e necessità drammaturgica ben raccolta nel rapporto tra l’artista e il giornalista americano James Lord (Armie Hammer), in trasferta a Parigi per incontrarlo e destinato a diventare il modello di un ritratto. Lord accetta un impegno di un paio di giorni e finisce inghiottito dall’irrequietezza di Giacometti, che opera sempre dentro un regime di insofferenza, convinto che un ritratto sia per sua natura interminabile nell’epoca della riproduzione fotografica (la fotografia è banalmente il limite del ritratto).
Questo dissesto delle intenzioni è in realtà la natura della sua ispirazione, come spiega a Lord il fratello-artigiano Diego (Tony Shalhoub), quello che prepara ad Alberto gli scheletri metallici per le sue sculture scarnificate. Lo stallo è quindi contemporaneamente la natura del discorso artistico di Giacometti e quella del contesto umano in cui avviene l’incontro, oltre che il piccolo espediente comico che manda avanti il film, visto che Lord deve continuamente rinviare il suo volo di ritorno, mentre il pittore non smette di dipingerne e cancellarne il volto.
Tucci gira in penombra, con luci diffuse, senza direzione, ma stacca singole inquadrature di eccezionale bellezza, usando solo riflessi e sovrapposizioni dei corpi e delle opere. Certo, ogni tanto si concede pure qualche “godardata”, fa la sua piccola (e un po’ scema) nouvelle vague all’americana, o usa musichette da cartolina come solo oltreoceano non si vergognano a fare, ma c’è un’intelligenza generale nel confronto d’attore tra i due protagonisti, nel pudore dell’evitare scene madri, nella modulazione dell’ironia, nella “fissità mobile” del contesto, che ti convince a perdonare il resto.
Geoffrey Rush in particolare mette assieme la performance più godibile dai tempi di Shine – il ruolo gli calza a pennello, a partire dalla somiglianza con il vero Giacometti; mentre Armie Hammer ha una qualità nei mezzi toni – questa attitudine a recitare senza darne i segni, a muoversi appena, una specie di consapevolezza estrema della sua gigantesca mole – che non gli porterà mai la fama dei veri divi né tanto meno un Oscar, ma è di una generosità che in giro si vede poco.
Qui il resoconto della conferenza stampa di The Final Portrait dal Festival di Berlino 2017
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