Vittoria (Sara Casu) ha dieci anni e due madri: Tina (Valeria Golino), donna amorevole che si prende cura di lei nella maniera più tradizionale possibile, accudendola con premura, e Angelica (Alba Rohrwacher), incasinata e turbolenta, che conduce una vita randagia e instabile, approssimativa e irrimediabilmente fragile e caotica.
Una delle due l’ha cresciuta e l’altra l’ha venduta a colei che l’ha tirata su, per poi volersene riappropriare solo molti anni dopo, in un impeto d’amore scombussolato proprio come tutto quello che Angelica fa e tocca. Nell’arco di un’estate il legame tra queste tre donne, difettoso e disfunzionale da qualsiasi prospettiva lo si guardi, finirà col cambiarle tutte quante.
La regista Laura Bispuri, tre anni dopo Vergine giurata, torna in concorso alla Berlinale (ed è di nuovo l’unica italiana in concorso nel festival tedesco) con un altro film, Figlia mia, che fa i conti con l’identità e la femminilità, anche se stavolta non da una prospettiva individuale (una donna che si forza a vivere come un uomo), ma collettiva, familiare, allargata. In bilico tra realismo e fiaba premoderna, come già ne Le meraviglie di Alice Rohrwacher, col quale c’è più di un punto di contatto.
È una storia di madri ma anche di paesaggi, Figlia mia: naturalmente quelli di una Sardegna brulla e selvaggia, rurale e poco vista, sul cui sfondo si staglia la durezza molto poco accomodante delle figure che lo abitano. La regista, che sceglie uno scenario più luminoso ma non meno doloroso rispetto all’Albania del film precedente, non cerca certo l’approfondimento mentale e si affida alle immagini, alla loro superficie modellata come argilla: il suo stile di ripresa è terreo e fisico, avvolgente e naturalistico, con camera a mano e semi-soggettive a farle da padrone, valorizzate dalla fotografia del sempre bravo Vladan Radovic.
La confezione formale è sicuramente giusta per il film che la Bispuri ha in testa, ma in linea con la media di tanto cinema d’autore consolidato e schematico, rigido e un po’ a tesi, incapace di gettare il cuore oltre l’ostacolo dei propri limiti e di acquisire tridimensionalità. In questo, però, c’è un’urgenza innegabile e un’adesione totale alle vicende narrate, che cerca la verità negli spazi, perlustrando gli interni e gli esterni con la stessa intimità.
Non a caso più che un film di psicologie, che restano monche e congelate, quella della Bispuri è un’opera di sensazioni tattili: di sguardi e sentimenti troncati, di anni che non si vedono e pure pesano come macigni, di sporcizie agresti, di inadeguatezze sepolte sotto gli sguardi spenti, di passioni che si opacizzano. In ciò stanno il suo valore e la sua forza, perché c’è un magnetismo non trascurabile che impedisce di staccarsi dalle immagini e di non farsene attraversare.
Rispetto all’interpretazione in Vergine giurata, per forza di cose tutta in sottrazione, la regista regala alla Rohrwacher un personaggio eccessivo e sopra le righe, una donna rabberciata e sciatta, respingente e alle prese con l’erotismo disordinato e alcolico che fa spesso rima col disagio di chi si ama troppo o troppo poco.
Angelica, se confrontata col personaggio della Golino che è un vero e proprio monolite matriarcale, è probabilmente la cosa più mobile e interessante di un film che però non riesce a valorizzare del tutto il rapporto viscerale, d’amore e d’odio a corrente alterna, tra le due donne e la piccola Vittoria, lavorando tutto sommato più di testa che di cuore ma approdando a un finale in cui la riemersione dai fossati e dalle buche è sia materiale che interiore e in cui il corpo di un’adolescente – ancora mascolino, ma innegabilmente cresciuto e potenziato – si fa tutt’uno con la Terra. Madre, appunto.
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