È solo per un caso che Gilles, un giovane ebreo belga, è in possesso di un libro in farsi che gli “salva la vita”, solo perché uno degli ufficiali del campo di prigionia dove finisce ha deciso di imparare proprio quella lingua. Così Gilles, diventato Reza, deve improvvisarsi docente, inventando una lingua che non conosce, con il rischio costante di essere scoperto, mentre intorno a lui gli orrori della persecuzione diventano sempre più insostenibili.
Il tour de force linguistico del protagonista (che passa dal francese al tedesco con disinvoltura e soprattutto improvvisa una lingua d’invenzione che passa per farsi) è nelle mani e nel corpo dell’attore argentino Nahuel Pérez Biscayart (al festival anche nel film El Prófugo) che ha dichiarato: «Recitare in tutte queste lingue che non sono la mia, alla fine è liberatorio, quasi come se le emozioni trovassero una loro via più facilmente in una lingua che non è la mia».
Un’esperienza che l’attore ha già fatto molte volte in passato (come in 120 battiti al minuto) dimostrando una straordinaria capacità camaleontica. Al suo fianco, nel ruolo complesso e affascinante dell’ufficiale tedesco appassionato di lingua e cultura persiana, Lars Eindinger (anche lui di nuovo in concorso più avanti con Schweisterlein).
«Il tema della lingua, o meglio delle lingue, è quello che mi ha interessato di più in questo film. Il tema di fondo, infatti, è noto, ma il modo in cui è declinato qui è decisamente unico, e le implicazioni filosofiche di questa storia sono davvero particolari. Quando e quanto l’ufficiale Koch si rende conto che Reza lo sta prendendo in giro? Fino a che punto è preda di un autoinganno che gli permette, almeno per un attimo, di essere la persona che forse nel profondo è davvero?».
Certo è che il film riesce a mantenere in questo modo uno straordinario equilibrio nel raccontare senza sconti la tragedia dei campi di prigionia, ma al tempo stesso dare dei tocchi di ironia nel ritrarre il microcosmo dei carcerieri (ufficiali e soldati semplici, infermiere e medici), dilaniato da invidie, ripicche e sottili vessazioni.
«Non è un holocaust movie, ma un film sulla fiducia e sull’interazione umana» ha dichiarato il regista Vadim Perelman in conferenza stampa. «Anche per questo nel mio film i tedeschi non sono presentati come automi, ma come persone vere; ho voluto umanizzarli non per perdonarli, ma per costringere lo spettatore a confrontarsi con loro»
Un confronto che sta a cuore anche a Eidinger: «Come tedeschi è assurdo non fare i conti con il nostro passato, specie pensando ai rischi che si ripeta che abbiamo sotto gli occhi. Facciamo parte di una storia: mio padre è nato durante la guerra, mio nonno l’ha combattuta. È un trauma che va processato anche a livello personale e per me è stato importante farlo in questo film.»
Il risultato è una pellicola di grande intensità e molteplici livelli di lettura, con un cast di personaggi pieni di sfumature, capace di colpire al cuore.
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