Berlino 2012, i Taviani lasciano il segno
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Berlino 2012, i Taviani lasciano il segno

Gli ottantenni registi conquistano il Festival con Cesare non deve morire, un film carcerario intenso e toccante

Berlino 2012, i Taviani lasciano il segno

Gli ottantenni registi conquistano il Festival con Cesare non deve morire, un film carcerario intenso e toccante

Sono due sorprendenti ottantenni gli artefici di un film, Cesare non deve morire, che a Berlino non ha lasciato indifferenti. La messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare all’interno del carcere di Rebibbia ha per interpreti i carcerati della sezione di massima sicurezza (gente che ha sulle spalle pene che vanno fino all’ergastolo per delitti di mafia, camorra e similari), ed è raccontata attraverso un intenso bianco e nero, per gli autori “la scelta di una irrealtà nel linguaggio”, cioè già una mediazione rispetto al puro naturalismo documentaristico del colore.

Il risultato è un’operazione intensamente artistica, che per i Taviani è anche l’espressione di una rapporto con il Bardo maturato nel tempo. «Per noi Shakespeare è stato un padre, un fratello e un figlio! Un genio di cui in gioventù abbiamo cercato di seguire la grandezza, che nella maturità è diventato uno spauracchio terribile da cui tenersi lontani, e alla fine adesso, da “vecchi”, da padri, ci siamo sentiti liberi di trattare un po’ male; lo abbiamo preso e smembrato, decostruito e ricostruito nel nome di uno spettacolo che diventa film». Convinti che Shakespeare sarebbe stato contento di veder rappresentata al cinema, figlio degenere del teatro, ma soprattutto in un carcere, la sua opera, i Taviani hanno presentato a un pubblico commosso e stupito la storia di un incontro.

L’incontro dei registi con un “teatro dove si piange” nel carcere di Rebibbia, un’esperienza messa in piedi dall’attore Fabio Cavalli; ma prima di tutto l’incontro con una materia umana dolorosa che è stata punto di partenza per trovare delle verità universali, ma anche per costruire una relazione affettiva con gli interpreti.

Di qui anche la scelta dell’opera da mettere in scena: secondo i Taviani «il Giulio Cesare ha il merito di contenere delle naturali consonanze con le esperienze del carcere: i concetti di potere, tradimento, congiura, omicidio sono parte dell’esperienza dei carcerati (ma anche della nostra), parte del loro dramma così come del dramma dei personaggi di Shakespeare».

Un’intuizione da cui sono nati, nel corso delle riprese, intensi rapporti umani, una affezione che non fa venire meno il giudizio su ciò che gli attori improvvisati hanno fatto. Il passato dei carcerati, il loro presente nella situazione drammatica delle carceri italiane di oggi, tutto diventa parte di questo lavoro. Il modo di espressione è diretto ed emotivo, soprattutto quando a recitare è un ex carcerato e oggi attore come Salvatore Striano (nel curriculum anche Gomorra e Fort Apasc), che nel film ha la parte di Bruto.

Un azzardo che forse solo artisti con il curriculum dei Taviani si sarebbe potuto permettere. Un azzardo vincente che permette all’Italia di lasciare un segno nella Berlinale 2012. (Foto © Umberto Montiroli)

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