Un film sul kitsch, sul piacere del kitsch e sul suo (discutibile) valore artistico. Sul talento per il kitsch e sull’appropriazione indebita dei meriti altrui.
La trasformazione di Tim Burton da regista “di genere” (il fantasy gotico) a “genere” vero e proprio, si è compiuta da tempo, ed è interessante che l’autore di Edward Mani di Forbice senta il bisogno di mettere un punto – o almeno un punto e virgola: il seguito di Alice in Wonderland è già in preproduzione – alla faccenda con un film molto poco burtonesque che è anche una riflessione sulla sua carriera, qui specchiata in quella di Margaret Keane (interpretata da Amy Adams), pittrice autodidatta, specializzata in ritratti di bambini dagli occhi sproporzionati.
La Keane era una madre single che traduceva i propri ricordi d’infanzia e il rapporto con la figlia nelle sue opere. Le vendeva da ambulante e senza particolare talento commerciale. La sua vita cambiò completamente dopo l’incontro con Walter Keane (da cui il cognome con cui è conosciuta ancora oggi), altro pittore da strapazzo (lo interpreta Christoph Waltz), agente immobiliare con un gigantesco talento per le bugie e l’autopromozione. Sarà lui a trasformare “Keane” in un brand, e lo stile della moglie in un’iconografia universalmente riconosciuta. Con il piccolo dettaglio che nel farlo si attribuirà anche la paternità delle opere.
Burton, che colleziona da anni i ritratti di Margaret e le ha anche commissionato quelli delle sue compagne (Lisa Marie Prisley prima, e ora Helena Bonham Carter), usa le forme del biopic per realizzare un quasi-thriller familiare e femminista che ha più che altro lo scopo di mostrare la separazione tra la produzione di un’artista, la sua mercificazione e la sua ricezione popolare. Per evidenziare al massimo il contrasto, affianca la Adams, che recita sui registri del melo, a Waltz, che usa invece quelli della farsa, diventando – supponiamo intenzionalmente – la caricatura di se stesso (sfumatura che il doppiaggio probabilmente farà scomparire). Walter è il megafono di Margaret, fa arrivare la sua voce a tutti, la rende popolare, ma al contempo, moltiplicando all’infinito la riproduzione delle sue opere (a un certo punto del film si rende conto che guadagnerà di più vendendo a pochi cent cartoline e poster dei quadri della moglie, che non i quadri stessi), ne fa sparire il senso (il quadro gigantesco imposto alla donna come coronamento di tutta la produzione) e l’origine (l’imbroglio sulla firma).
Un omaggio a un’artista che Burton ama intensamente, e al contempo un atto di rivendicazione della natura privata dell’ispirazione, della sua distanza dal mondo e dalla sua evoluzione commerciale. Probabilmente il suo film più personale e sincero dai tempi di Big Fish.