Blade Runner 2049: non è Blade Runner, ma è tanta roba. La recensione
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Blade Runner 2049: non è Blade Runner, ma è tanta roba. La recensione

Denis Villeneuve, e il direttore della fotografia Roger Deakins, confezionano un poema visivo che non dimenticherete facilmente. È davvero il migliore dei sequel possibili?

Blade Runner 2049: non è Blade Runner, ma è tanta roba. La recensione

Denis Villeneuve, e il direttore della fotografia Roger Deakins, confezionano un poema visivo che non dimenticherete facilmente. È davvero il migliore dei sequel possibili?

Harrison Ford nel nuovo Blade Runner

NOTA: la recensione non contiene alcuno spoiler, tranne la descrizione del prologo e un riferimento ad un’altra saga fantascientifica che potrebbe essere interpretato come tale, e per questo è indicato con un asterisco e riportato ai piedi dell’articolo. Per la stessa ragione, essendo la trama fin da principio costellata da twist, l’articolo costituisce una riflessione generale sul film e il suo rapporto con il capostipite del 1982, ma non scende mai nel dettaglio del racconto.

Vale la pena rivedere il classico del 1982 di Ridley Scott dopo, e non prima, aver visto il nuovo Blade Runner 2049, così da non comprometterlo con un livello di aspettative impossibile da soddisfare, ma nemmeno inficiarne a priori il piacere notevole dell’esperienza.
Blade Runner resta una delle più straordinarie corrispondenze tra industria e artigianato della storia del cinema. In un periodo in cui la macchina produttiva non aveva a disposizione una potenza computazionale tale da permettere virtualmente qualsiasi cosa, anche un film ad alto budget (e il film di Scott lo era: tenendo conto dell’inflazione i budget dei due film si assomigliano) necessitava prima di tutto della qualità privata, in un certo senso casuale, delle persone che ci lavoravano.

Oggi è cambiato tutto senza che cambiasse niente, nel senso che lo sguardo di un regista come Denis Villeneuve (Arrival) e di un direttore della fotografia come Roger Deakins continuano a salvare le intenzioni di un blockbuster che mira sostanzialmente a “valorizzare un brand” e a “rilanciare un franchise” (con corrispondenze ad un’altra celebre saga sci-fi degli ultimi vent’anni quasi incredibili*), recuperando una piena dimensione autoriale al “prodotto”.

Ecco allora che se il film del 1982 era una riflessione sulla mortalità, senza buoni né cattivi (ed è commovente osservare oggi quante sfumature Rutger Hauer, al di là dello sputtanatissimo monologo finale, riuscì a donare al personaggio di Roy Batty: terrore, rabbia, desiderio, tristezza, hanno tutti nella sua mimica un carattere infantile che racconta i soli quattro anni di vita degli androidi Nexus 6 meglio di qualsiasi dialogo – davvero con lui vediamo morire un bambino), un noir pacifista e progressista (il bacio con cui Batty infila la lingua nella bocca del cadavere di Pris, o quello con cui consegna alla morte il suo creatore, sono slanci che difficilmente oggi il cinema commerciale si potrebbe permettere) con una storia elementare e molti strati al di sotto di essa, Blade Runner 2049 si propone invece come un colosso sci-fi interessato a far lievitare la dimensione mitica dei personaggi e del loro mondo.

La conseguenza, che vale in pratica identica per tutti i reboot di saghe di alto profilo, è un cinema fantastico che non dialoga più con la realtà ma con se stesso, cioè perfettamente postmoderno. Non è un caso che il rapporto con il contemporaneo, cioè la misura del tempo, in Blade Runner fosse affidata semplicemente all’armamentario scenografico (pensate a quelle magnifiche foto in bianco e nero sul pianoforte di Deckard, prese in mano da Rachel che ha appena scoperto di essere un replicante), mentre ora necessiti addirittura di ologrammi che riportano in vita Elvis e Sinatra.

Date queste premesse il miglior Blade Runner 2049 possibile sarebbe stato uno spin-off che avesse minimizzato le ambizioni filosofiche e investito tutto sulle atmosfere, una piccola storia che raccontasse sviluppi collaterali dello stesso universo.
E il bello è che il prologo del film è esattamente questo, il migliore dei sequel possibili: l’agente K (Ryan Gosling, perfetto per la parte), un altro blade runner, va a ritirare uno dei vecchi modelli a durata indefinita ancora in circolazione, un omone pacifico che alleva vermi (Dave Bautista), cioè proteine, in una piana nebbiosa piena di serre. I piccoli progressi tecnologici intervenuti nei trent’anni di salto temporale (per esempio il tettuccio volante dell’auto di K), l’umanità artificiale rivendicata dal contadino (“coltivo l’aglio perché mi piace”), i riferimenti a un’economia al collasso, l’illuminazione “realista” della baracca (che ricorda quella in cui si conclude Non è un paese per vecchi), lo scontro pacato tra i due personaggi, sono quanto di meglio si potesse desiderare, l’eco rotonda del mito.

Di lì in poi il film si gonfia come un fiume in piena, e fa il suo corso. Sulla trama, come richiesto espressamente da Villeneuve con una didascalia, non ci soffermiamo, ma basti come esempio tra i pesi messi sulla bilancia il confronto fra il Tyrell del 1982 e il Wallace di Jared Leto.
Il primo è un imprenditore e un ingegnere, un ometto con la passione degli scacchi, che si esprime come uno scienziato.
Il secondo è un crudele villain biomeccanico, con una parlata aulica.
Il primo è interpretato da un vecchio caratterista (l’ottimo Joe Turkel, il barista di Shining), sbozzato solo con un paio di occhiali.
Il secondo è interpretato da un idolo teen come Jared Leto, e pare uscito da un cinecomic DC, lui e la sua scagnozza assassina.

Non c’è niente di male in tutto questo, e anzi adesso bisogna aggiungere che il film è un tour de force visivo di rara intensità. Se nel 2017 uno spettatore non potesse andare al cinema più di due volte, certamente le scelte migliori sarebbero Dunkirk e Blade Runner 2049. Ma bisogna anche aggiungere che se i cieli di Blade Runner raccontavano di un sole che cerca una strada per oltrepassare lo smog, l’illuminazione espressionista di Blade Runner 2049 racconta soprattutto la bravura straordinaria di Roger Deakins.

Sul piano della scrittura invece, la novità migliore in assoluto è rappresentata da Joi (Ana de Armas), l’amante artificiale di K, dove “artificiale” assume un colore diverso, e ancora più intenso: Joi ha una forma umana e una personalità, ma nessuna materia, è pura luce, come una versione 2.0 della Her del film di Spike Jonze. Il rapporto tra i due consente nuove sfumature romantiche, e piccole sorprese.

Per chiudere: vedetelo. Blade Runner 2049 ha momenti di grande bellezza e poesia, è un’esperienza perfettamente “da sala” (come Dunkirk, come madre!) e perfettamente gratificante in un’epoca in cui la sala ha disperatamente bisogno di questi imperativi a sopravvivere.
Ma misuratelo sulle proprie ambizioni e sul proprio tempo, non sull’originale.

* SPOILER
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Matrix
, di cui il film ricalca la dinamica dell’eletto da proteggere, che dovrebbe ispirare una ribellione

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