Bridgerton, serie britannica basata sui bestseller della scrittrice Julia Quinn e ambientata in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, non è solo il fenomeno seriale più chiacchierato del momento e ormai sulla bocca di tutti (tanto che Netflix l’ha appena rinnovata per una seconda stagione, neanche un mese dopo la sua uscita), ma anche il guilty pleasure più solare e allo stesso tempo più deliziosamente subdolo in circolazione.
Al centro della trama di Bridgerton, prima serie di Shondaland distribuita su Netflix dopo l’accordo milionario di Shonda Rhimes col colosso dello streaming, ci sono gli intrighi romantici e scandalosi dell’alta società dell’Età della Reggenza londinese (periodo storico che va dal 1811 al 1820): un fondale particolarmente sapido e smaliziato per servire al meglio – e sobillare a dovere – l’immaginazione soapy della creatrice di Grey’s Anatomy e dello showrunner Chris Van Dusen, che oltre al noto e longevo medical drama è anche autore di serie come Private Practice e Scandal.
Le vicende narrate sono quelle di Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor, nei momenti migliori della serie davvero una presenza attoriale intensa e dolcissima), la figlia maggiore della potente famiglia Bridgerton che si prepara a fare il suo debutto nel competitivo mercato matrimoniale di Regency London. Sperando di seguire le orme dei suoi genitori e trovare il vero amore, le prospettive della ragazza inizialmente sembrano non essere messe in discussione. Mentre suo fratello maggiore inizia a escludere i suoi potenziali corteggiatori, il foglio dello scandalo dell’alta società scritto dalla misteriosa Lady Whistledown (che tra l’altro ha la voce di Julie Andrews: la delizia è servita) pone Daphne sotto una cattiva luce.
Entra allora in gioco il desiderabile e ribelle Duca di Hastings (Regé-Jean Page, ricoperto di un’investitura bondiana dal pubblico della serie), scapolo impegnato e considerato match ideale, come si direbbe oggi sulle app di dating di cui Bridgerton è una sorta di estensione in costume, dalle mamme delle debuttanti. Nonostante i due affermino di non volere nulla di ciò che l’altro ha da offrire, la loro attrazione è innegabile e le scintille sprizzano da ogni poro che hanno in corpo mentre si ritrovano impegnati in una crescente battaglia di ingegni e affrontano nel frattempo, giusto per gradire, anche le aspettative della società per il loro futuro.
Andare in cerca della verosimiglianza storica in Bridgerton è naturalmente operazione particolarmente sterile, e non solo perché alcuni personaggi proposti come neri dalla serie nella realtà non lo erano, come il già citato duca Simon Basset e la regina Charlotte. Il serial non si ripromette di essere poi troppo fedele nemmeno ai romanzi originali: accentua la maliziosità patinata del classico canovaccio con pettegolezzi a corte e vi aggiunge ampie spolverate di modernità, tanto sorniona quanto forzatamente al passo coi tempi, e femminismo ante litteram: nel suo mix e di ecumenismo rassicurante e provocazione di facciata è un prodotto contemporaneo già nelle premesse e ancor prima di vedere la luce.
Bridgerton, tra le tante cose, un po’ per l’effetto cringe delle canzoni contemporanee trasferite magicamente due secoli prima (bad guy di Billie Eilish, ad esempio) un po’ per la sua natura di telenovela tanto luxury quanto crowd pleaser, reca con sé una compattezza d’immaginario granitica a misura di ironia da meme, portatrice quasi in automatico (col senno di poi è anche facile dirlo) di visualizzazioni a pioggia. Non è solo la fusione perfetta tra Jane Austen e Gossip Girl (con una virata potentissima, decisiva e guizzante verso un Cinquanta sfumature irrorato di corsetti e orologi da taschino), ma anche uno scaltrissimo esempio di distacco furbastro dal cuore delle cose, ormai perfino oltre il postmoderno: la certificazione di come bastino alcuni studiati elementi a misura di algoritmo per svecchiare praticamente tutto e far sembrare luminoso e pirotecnico anche il materiale in costume sulla carta più logoro e stantio.
Un prodotto come Bridgerton mal si presta, probabilmente, a essere maneggiato con vecchie categorie critiche e ne servirebbero forse di nuove, magari aggiornate ai paraventi un po’ posticci e alle scorciatoie di un period drama che scalpita per essere così spudoratamente declinato al presente assoluto e scalare i trend topic senza grandi bon ton. Cinismo a parte, Bridgerton ha però un merito: quello di celebrare il distacco dall’emotività e dal romanticismo più decrepiti per riabilitare, senz’alcuna pretesa al di fuori di un comodo intrattenimento rosa, la forza e la grazia di una femminilità che, a condizione di essere chiamata per nome, affronta anche un discreto cumulo di insidie e si agita non certo a vuoto, conscia del proprio posto nel mondo.
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