Ladybug (Brad Pitt) è uno sfortunato assassino determinato a portare a termine il suo compito senza problemi dopo l’ennesimo ingaggio finito male. Il destino, tuttavia, sembra avere altri piani: la missione di Ladybug lo mette in rotta di collisione sul treno più veloce del mondo, con avversari letali provenienti da ogni parte del globo, tutti con obiettivi collegati ma contrastanti.
Dal regista di Deadpool 2 e Atomica Bionda, David Leitch, Bullet Train, presentato in apertura al 75esimo Locarno Film Festival e tratto da un romanzo di Kotaro Isaka, è ambientato tutto all’interno di uno dei cosiddetti “treni proiettile” giapponesi ed è un action che mira a un approccio altrettanto supersonico, pensato e girato a mille all’ora, con un gusto per l’evoluzione a effetto – fisica e coreografica – che va sempre a braccetto con un sottofondo di risate e sberleffi.
Leitch, tra le altre cose anche co-regista non accreditato di John Wick insieme a Chad Stahelski, sa perfettamente come si congegna un prodotto d’azione e, come già nel suo precedente film con Charlize Theron, anch’esso proposto nella cornice svizzera di Piazza Grande, è più interessato al puro senso di godimento connesso alla carica smagliante e performante dei corpi in azione, chiamati a mettersi in gioco maggiormente rispetto alla media, che a giocare d’accumulo col frastornante come tanti altri suoi colleghi; tanto che si concede perfino qualche rara finezza, giocando molto con le affilate – ma anche delicate – transizioni al neon da un vagone all’altro.
Quest’idea di sregolatezza sbruffona, ma anche di liberazione da codici e dettami asfittici del genere, permette a Bullet Train di giocare su paradossi e contraccolpi da proporre anche in chiave deliberatamente comica, offrendo così allo spettatore un perfetto modello di blockbuster estivo a cavallo tra la goliardia scacciapensieri e il sollievo alimentare della bibita ghiacciata. La presenza di Brad Pitt in questo senso aiuta molto, perché il divo è tra le star hollywoodiane di primissimo piano più in grado di sporcare la sua icona planetaria e il suo corpo da adone con lampi di auto-ironia bassa che finiscono per esaltarne e potenziarne a dismisura il carisma, come le sue collaborazioni con i Coen e Tarantino sono lì a testimoniare eloquentemente.
Il suo sicario nerd al quale ne sono successe di tutti i colori, ma nonostante tutto sempre avvenente, impeccabile nella cura dell’aspetto e con un distacco razionale e ottimista che non ne vuole sapere di abbracciare appieno alcun nichilismo, è il perno ideale intorno al quale ruota un film disincantato e godereccio che è allo stesso tempo orizzontale, alla Snowpiercer di Bong Joon-ho (come l’andamento del treno impone anche figurativamente), e verticale, con tante sottotrame e personaggi presentati a incastro dalla sceneggiatura di Zak Olkewicz. Quest’ultimo non fa certo mistero di un gusto e un’ispirazione deliberatamente tarantiniani (l’eterno ritorno degli anni ’90 in certo macchiettismo criminale è confermato anche da un piglio alla Guy Ritchie nella parodia della londinesità e in certi strappi pulp): tutto usato sicurissimo per sfangarla nella presentazione dei personaggi, nelle divagazioni verbose dal nucleo dell’azione, nella sintesi tra modelli orientali e occidentali e perfino nelle immancabili valigette.
Foto: Columbia Pictures, Fuqua Films, 87North Productions
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