Secondo film in concorso a Cannes 2011, seconda regia femminile e seconda sorpresa. We need to talk about Kevin – coproduzione USA/UK con un cast di nomi noti (ci sono Tilda Swinton e John C.Reilly) – è una specie di incrocio tra Elephant e The Omen, e potrebbe tranquillamente essere catalogato come un horror (considerata la trama di La Piel que Abito di Almodovar, che arriverà tra qualche giorno, non rimarrà l’unico). Si tratta della storia di una madre (la Swinton) che deve elaborare i sensi di colpa per aver cresciuto in modo troppo permissivo un figlio che ha finito per compiere una strage a scuola. Il presente della donna, sistematicamente aggredita dai genitori delle vittime e sottoposta a ogni sorta di umiliazione, si alterna alla ricostruzione della vita del ragazzo, addirittura a partire dal suo concepimento. E proprio le caratteristiche del bambino spostano le coordinate del film dal dramma sociale all’horror. Il Kevin del titolo, infatti, non è un ragazzino che in seguito a un trauma o ad un condizionamento finisce sulla cattiva strada; ma la semplice, manifesta incarnazione del male. Che si esprime attraverso un atteggiamento antagonistico e provocatorio nei confronti della madre, perfettamente compensato da un affetto falso e ricattatorio nei confronti del padre. Kevin, pur disponendo di un’intelligenza che sfiora il genio, rifiuta di parlare, utilizzare il bagno, mangiare a tavola, e più in generale sottostare ad una qualsiasi delle regole del vivere civile. Un malessere che, quando il ragazzo diventa adolescente, si trasforma in consapevole nichilismo (“il punto è che non c’è nessun punto” dice alla madre che gli chiede ragione dei suoi gesti), e poi in una escalation di violenza.
Fosse tutto qui potremmo liquidare il film come un horror ben riuscito (la regia scompagina i piani temporali e lavora di sottrazione, non mostrando mai la violenza, o rendendola assurda, paradossale), ma c’è di più. L’unica volta in cui Kevin si dimostra remissivo e obbediente con la madre è infatti quando lei, dopo l’ennesimo sgarbo, gli rompe per sbaglio un braccio. Molti anni più tardi, durante una delle visite in prigione che seguono gli omicidi, è Kevin stesso a dirle, ricordando l’accaduto, “si fa così anche con i gatti: quando la fanno fuori dalla sabbia gli premi il naso contro le loro feci”. Ma l’episodio resta isolato. La madre, una scrittrice di libri di viaggio progressista e illuminata, giustifica sistematicamente le ribellioni del figlio, evitando anche nei casi più gravi di punirlo fisicamente. Perfino dopo la strage si ostina a voler “capire”, rifiutandosi di rifiutare la natura del figlio. Il film diventa così, in modo del tutto esplicito, un deliberato atto d’accusa ai sistemi educativi permissivi e politicamente accettabili, un atto d’accusa che per giunta si basa sulla opinabile premessa che esistano persone di malvagità connaturata e priva di ragioni.
In un senso più circoscritto, e trattandosi del film di una donna sulla storia di un’altra donna, We need to talk about Kevin è il dramma di una madre che non riesce a riempire il vuoto che avvelena il proprio figlio, raccontata con toni surreali e un’assurda, straniante colonna sonora country.