Ruggine e ossa. Già dal titolo il melò di Jacques Audiard, presentato oggi in concorso al Festival dichiara apertamente la sua fonte di ispirazione: ovvero l’omonima raccolta di racconti di Craig Davidson. Al suo universo crudo e violento, disperato e struggente, si rifà infatti il regista de Il profeta (che l’anno scorso aveva quasi strappato la Palma d’oro) nell’ iper-melò che vede protagonisti gli affascinanti Marion Cotillard (in dirittura d’arrivo anche con Il cavaliere oscuro – Il ritorno) e Matthias Schoenarts e in cui si intrecciano vite in bilico, individui senza una direzione, anime travolte dagli incidenti della vita, sullo sfondo di una periferia come mille altre.
Ruggine, dicevamo, come quella che ricopre il garage e il cuore dello squattrinato Ali, che si ritrova improvvisamente con un figlio di cinque anni a carico, a cercare di ricostruirsi un futuro, appoggiandosi alla sorella maggiore e finendo presto nel giro degli incontri di lotta clandestini. Ma anche ossa, come quelle spezzate di Stephanie, addestratrice di orche presso un parco di divertimenti, travolta (e “mangiata”) da una delle sue creature e vittima dell’amputazione di entrambe le gambe (presto sostituite da arti meccanici), con lo sgradito compito di ricostruirsi una vita a partire dal suo handicap.
Come Stephanie è interrotta nel corpo, così Ali è amputato nella sfera emotiva, con cui non vuole entrare in contatto. Due esistenze in bilico, che hanno perso le coordinate del loro destino e devono reimparare a “galleggiare” nel mare dell’esistenza. Due individui come tanti che combattono per la propria sopravvivenza in un contesto in cui la cui violenza il disagio sono esasperati dalla crisi economica.
Anche qui come con Il Profeta, Audiard prende un genere raccontato mille volte, il melò, per sovvertirlo dall’interno raccontando molto di più, a partire dalle fragilità dei suoi protagonisti, proponendo una coppia bordeline contro cui la vita si accanisce, ma che non smette di cercare una strada verso la felicità, chiedendoci di siglare con lui un tacito patto per cui accoglieremo il suo invito a partecipare a un gioco di cui conosciamo tutte le regole e possiamo prevedere gli esiti, facendoci comunque trascinare dalla bellezza insita nel gioco stesso. Un invito a cui facilmente ci sottoponiamo, grazie allo sguardo di umana partecipazione con cui guarda ai suoi personaggi e alle loro vicende, nonostante soprattutto verso la fine calchi la mano nel far precipitare gli eventi. Il regista si addentra nell’osservazione di un sentimento, dapprima solo carnale e via via più emotivo, che trasforma, lenisce le ferite dell’anima, placa gli istinti primari, inventa percorsi imprevedibili e conferisce all’individuo quella nobiltà e quella bellezza che la vita sembrava avergli tolto. Uno sguardo pieno di ammirazione per lo slancio vitale dei suoi personaggi quello di Audiard, radicalmente partecipe, talmente innamorato della sua umanità sfortunata, da coglierla in primi piani ravvicinatissimi che quasi confondono.
Pop nel gusto, ma raffinatissima nei risultati, la sua regia è totalmente a servizio dei suoi due “eroi” e del loro amore, a cui è asservito anche un sapiente montaggio che alterna ritmo sostenuto a rallenty muti nei momenti piu’ drammatici. Un insieme ben dosato, di cui bisogna anche sottolineare l’intrigante colonna sonora, in cui si inseriscono giustappunto le interpretazioni della Cotillard, qui nuovamente alla prova in un ruolo di difficoltosa metamorfosi fisica (come gia’ era avvenuto ne La vie en rose), contrapposta – con il suo aspetto romantico e delicato – alla virilità manifesta e spontanea di Schoenarts.
Rust and Bone è in definitiva il manifesto laico di un regista che esalta le capacità naturali dell’uomo di reinventarsi il destino rispetto alle prove della vita e a un Dio, che per lui, “vomita indifferenza”.
Voto: 3/5
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