In un’epoca di cinefilia pop come quella che stiamo vivendo, in cui le coordinate del visibile sono continuamente ridefinite in epopee fantasy e sci-fi sempre più clamorose, fa un certo effetto assistere al ritorno in sala di Wes Anderson, 3 anni dopo The Fantastic Mr.Fox. Anderson insiste infatti sulla propria idea di fantasy artigianale – un mondo simile al nostro ma in realtà alieno (sembra davvero di stare su un’altro pianeta), costruito solo con l’uso iperrealista di dialoghi e scenografie – scegliendo ogni volta un contesto diverso. In questo caso la pubertà e i suoi sussulti emotivi: il primo amore, i conflitti con i genitori, la letteratura fantastica come rifugio, la Natura come opportunità, e la minaccia dei coetanei, anch’essi in cerca di una definizione di sé.
Moonrise Kingdom racconta tutto questo partendo dalla fuga sentimentale di due dodicenni dropout: anime affini, emarginate in famiglia e in società (i boy scout per lui, i banchi di scuola per lei) da un carattere solitario e non compromissorio, che risponde con aggressività (leggi: cazzotti) a chi pretende da loro omologazione o sottomissione. La cornice di questa impresa è un’isola al largo delle coste del New England, assediata dal mare e dalle tempeste; la comunità che la abita (con i suoi riti, la sua chiesa, il suo sceriffo); e il 1965. E ciascuna di queste coordinate serve ad Anderson a creare il suo pianeta: un mondo con regole proprie in cui gli scout girano armati di arco o machete e costruiscono case sugli alberi ad altezza vertiginosa, rischiando continuamente di ammazzarsi, per la semplice ragione che la comunicazione tra ragazzini e adulti (il trasferimento di norme tra le generazioni), è impossibile.
Alla fine la sensazione è che le novità, per chi ricorda I Tenenbaum o Le avventure acquatiche di Steve Zissou, siano poche. Del secondo, ad esempio, viene addirittura ripresa pari pari la trovata di riprendere i due piani e le molte stanze di una casa frontalmente e in piano sequenza, passando da una all’altra, su e giù, come se tutte le pareti fossero tagliate a metà (in Zissou accadeva con la nave del protagonista). Ma lo stile di Anderson è cristallizzato da ogni punto di vista, e per esempio è interessante il modo in cui continua a considerare l’inquadratura una specie di piano cartesiano, con ascisse e ordinate, sentendosi obbligato a muovere la macchina da presa orizzontalmente o verticalmente, e trovando in queste manie geometriche un puntello alle proprie stramberie narrative. Così come il tono generale, che cerca sempre di bilanciare la poesia – per esempio il racconto della reciproca scoperta del corpo, sulla spiaggia, tra i due dodicenni – con tocchi cervellotici, infantili, disgustosi.
Il cast di grandi nomi – Bill Murray/Papà, Frances McDormand/Mamma, Bruce Willis/Sceriffo, Ed Norton/Capo Scout – si mette al servizio di questo mondo e di questa idea senza alcuna pretesa e con evidente devozione, dedicandosi con misura e professionalità a personaggi di contorno, tutti buffi e in qualche modo fragili. In due cameo ci sono anche Harvey Keitel e Tilda Swinton.
Nota a margine: si fa un po’ fatica a parlarne, perché in Italia non l’ha visto quasi nessuno, ma i punti di contatto con il film inglese Submarine sono tanti e tali da essere quasi imbarazzanti. Però quel film è a sua volta debitore dello stile e della poetica di Anderson, e quindi siamo al solito gatto che si morde la coda…
Voto: 3/5
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