Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, con Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire – aprirà stasera il Festival di Cannes 2013. Ecco la nostra recensione del film, di cui è da poco terminata la proiezione stampa.
Baz Luhrmann è figlio del suo tempo, tanto quanto Joseph Kosinski o Zack Snyder, i due registi che gli assomigliano di più: ha un fiducia senza limiti nell’immagine; pensa che ogni storia sia il pretesto per l’allestimento di una galleria d’inquadrature. Gli interessano le cose, e crea i suoi mondi – in questo caso la New York degli anni ’20, euforica e proibizionista, ipocrita e moralista – attraverso di esse, considerando (e usando) come “cose” anche i volti degli attori, o le canzoni della colonna sonora. Ci si trova quindi, alla fine del suo Gatsby, con le tasche piene e pesanti: storditi, stufi, ammirati e strafatti, come alla fine di una settimana di shopping. L’opulenza del suo cinema – perfino più che in Moulin Rouge! – trova infatti nella storia di Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio) e nelle sue stupefacenti feste, un megafono e al contempo uno specchio deformante ideali, toccando vette di kitsch difficili da immaginare.
Perché tutto questo dovrebbe piacere o dispiacere? Perché, come sa bene chi l’ha letto, Il grande Gatsby di Fitgerald è uno di quei racconti che non hanno bisogno d’una virgola in più – né di un nome famoso in cartellone, né tanto meno del 3D – per commuovere chi vi si immerge: ha, dei classici, la capacità di restare contemporaneo, e non quella di farti pesare la sua tradizione scolastica. Racconta di un uomo, Gatsby, che erige dal nulla un impero di menzogne per amore di una donna, Daisy (Carey Mulligan), mantenendo però una purezza d’animo e un ottimismo corroboranti, confondendosi (in tutti i sensi) senza successo in un’aristocrazia che pensa, sbagliando, di aver capito. Un errore che pagherà carissimo.
Si intuisce quindi che il contesto sociale della vicenda – il che si deve tradurre sullo schermo in scenografie, musiche, costumi – non può essere disperatamente (post)modernizzato così a buon mercato (con, per dire, il jazz che diventa un ibrido hip-hop, o gli abiti che calzano i corpi degli attori come un guanto, una tutina di Star Trek), se non pagando lo scotto di trasformare l’operazione in un clone di Romeo+Giulietta (che però aveva una sua coerenza) o, peggio, di Gangster Squad. È insomma una soluzione che andava bene per il citato Moulin Rouge! – che era una storia originale e in definitiva quasi fantasy, un album di cover sciocche e divertenti – ma molto meno qui.
Tutto male, quindi? No. La prospettiva con cui parliamo nasce comunque dall’amore per il romanzo e dalla fiducia in un cinema che non si appiattisca supino sull’immagine, e nel film resta abbastanza della storia e dei suoi personaggi da tenere avvinti e partecipi per le oltre due ore di proiezione. Si finisce però ingolfati: non tutto lo stupore viene per nuocere, non tutto per giovare.
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