Spregiudicati, fashion victim, incoscienti, alienati e benestanti, ecco i giovanissimi raccontati da The Bling Ring, film diretto da Sofia Coppola e opening della sezione Un Certain Regard, presentato oggi al Festival di Cannes. Emma Watson, ovviamente, è una delle star più attese del Festival e la sua performance non delude le attese. Fedele al suo stile videoclipparo e all’amore sfrenato per la moda e l’abbigliamento che la contraddistinguono sin dal suo esordio, la Coppola mette in scena un fatto di cronaca: l’ascesa e caduta della young gang losangelina The Bling Ring, che nel 2003 si intrufolò ripetutamente nelle ville californiane delle star più in vista di Hollywood, rubando il rubabile, prendendosi tutto il tempo per scegliere abiti, gioielli e scarpe (uno shopping clandestino e sfrenato di borse Birkin, scarpe con la suola rossa Loubotin, abiti Prada, Dior, Alexander McQueen, Lanvin e di qualsiasi altro brand di haute couture presenti alle sfilate) nelle preziose cabine armadio delle celebrities: Paris Hilton, Lindsay Lohan, Orlando Bloom e Megan Fox, Audrina Patridge… non c’è divetta a cui la giovane gang abbia trascurato di far visita. Il metodo di infiltrazione? Geniale e semplicissimo: tallonare i siti di gossip e le pagine social delle dive per conoscerne ogni spostamento. Come superare antifurti e siti sofisticatissimi di sicurezza? Nessun problema. I divi in questione sono così strafottenti rispetto ai loro averi e talmente ingenui da lasciare la porta aperta e la chiave sotto lo zerbino (sic!); manca solo l’invito.
Sofia Coppola è dai suoi esordi una regista sotto la lente d’ingrandimento per la sua estetica pronunciata da videoclip, per la sovraesposizione di abiti e accessori che sembrano vere e proprie sfilate (vengono subito alla mente gli interminabili cambi d’abito di Marie Antoniette), trovando spesso molti detrattori tra i critici. Se, però, c’è una storia che si attaglia alla perfezione a una regista che valorizza la forma rispetto al contenuto, è quella presentata oggi. Questa volta Sofia non si addentra nei salottini pettegoli e complottisti di Versailles e abbandona la dimensione nostalgica e intimista di Somewhere (con la quale ha vinto il Leone d’Oro a Venezia 2010) per raccontare il mondo che conosce meglio: le griffe e il lifestyle, accompagnato come sempre da un’adattissima colonna sonora hip-hop-e-dintorni, un altro dei marchi di fabbrica della Coppola. E, immancabile, la solitudine e l’alienazione dei giovani, sempre vittime di genitori troppo distratti (i genitori dovrebbero farsi delle domande…) .
I protagonisti dei film della Coppola alla fine sono sempre gli stessi (se si esclude Lost in Translation): adolescenti annoiati che affrontano il male di vivere in modo tragico (Il giardino delle vergini suicide) o alienato, come in The Bling Ring. Cervello della banda non è Nicki Moore (la Watson), come sarebbe facile pensare, ma una certa Rebecca detta Becca (Katie Chang), che nel diplomificio per ragazzi viziati e difficili da lei frequentato incontra il nuovo allievo Mark (Israel Broussard), stylist per passione, coinvolgendolo da subito nel suo progetto criminale e aggiungendo successivamente altri membri alla banda. Qui non siamo nei paraggi di Harmony Korine, la Coppola non esibisce mai relazioni sessualmente spinte o spregiudicate, anzi il suo cinema è quasi asessuato. Qui va in scena una banda con l’ossessione per la moda e precisi role model: Lohan, Hilton et similia. Rubare nelle loro case, entrare nei loro privé con tanto di palo per la lap dance (a casa Hilton), appropriarsi dei loro oggetti, significa seguirne le tracce, in un rapporto di imitazione-emulazione che tiene imprigionati questi ragazzi in una dimensione di sogno-veglia amplificato dalle droghe assunte.
Essere Lindsay, ecco il sogno dei ladruncoli, esaudito in pieno quando verranno persino arrestati e condannati (l’accesso al tribunale si transforma spesso in una sfilata), potendo emulare in pieno le gesta della loro icona. Scene ricche di ironia, una qualità che la Coppola non aveva mai esibito così dichiaratamente, e che è affidata soprattutto alla Watson, aspirante attrice o socialite (l’importante è la fama) molto sexy e ammiccante, che affronta in modo teatrale interviste, audizioni o processi, senza mai un briciolo di crisi di coscienza, pronta solo ad arrivare. La fotografia dei nuovi modelli e dei contesti famigliari inadeguati (la madre new age della Watson ne è il simbolo più fastidioso ed evidente) è chiarissima. Emerge persino, inaspettatamente, una chiara condanna morale e un monito (un coraggio insolito per la Coppola): qualcuno pagherà con il carcere; qualcuno invece riuscirà a cavarsela con poco e ad approfittare della situazione per lanciare la propria immagine (vedi il nostro Corona).
Alla fine? Purtroppo la Coppola è una brava fotografa e documentarista con un buon gusto raffinato. Ma nella sua autopsia del mondo giovanile non è capace di usare davvero il bisturi e rimane lì sospesa e incerta, incapace di affondare la lama dove serve, per non parlare della ripetitività registica delle scene di furto, che si susseguono sempre uguali e sempre secondo lo stesso schema. La ragazza ha le capacità, ma non si impegna, direbbero di lei i critici se fossero dei professori di liceo.
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