È un Paolo Sorrentino sereno, quasi pacificato con se stesso quello che incontriamo all’Hotel Carlton di Cannes dopo la première al Festival di La Grande Bellezza (leggi la nostra recensione), ultimo film del regista partenopeo (che esce oggi, in concomitanza, nelle nostre sale). Nuovamente in concorso sulla Croisette, dopo i premi a Il Divo nell’anno in cui Presidente di giuria fu il vero Divo Sean Penn, il quale si innamorò a tal punto dell’autore italiano e del suo stile visionario da decidere poi di recitare in This Must Be the Place.
Indossa un bel completo blu marinaro con doppio petto Sorrentino e ha i soliti capelli scomposti e quel sorriso sghembo da cui trapela tutta la sua ironia napoletana. Ed è proprio da questo aspetto caratteriale che partiamo con la nostra intervista senza rete al nostro autore più amato e rispettato in casa e all’estero, come dimostrano le recensioni internazionali positive del film, che vede protagonista l’immancabile Toni Servillo, ma anche un cast molto corale che ha coinvolto Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Giorgio Pasotti e tantissimi altri esponenti del nostro cinema.
Best Movie: Quanto c’è dell’ironia napoletana nel film?
Paolo Sorrentino: «Ovviamente La grande bellezza è un sentito omaggio all’ironia partenopea e forse ne sono talmente condizionato da utilizzarla inconsciamente senza rendermene più neanche conto. Il personaggio di Toni, Jep, corrisponde a una tipologia di napoletano che sia io che lui conosciamo molto bene: meravigliose figure in via d’estinzione per motivi anagrafici, che sanno conciliare in modo amabile la passione per il superficiale e il profondo, senza essere snob. Jep può frequentare indifferentemente la starlette televisiva, ma nella conversazione lasciar cadere di aver frequentato Moravia».
BM: In lui, però, c’è anche tanta “fame” da provinciale: di vita, di mondanità…
P.S.: «Sì, è vero. Si è sempre provinciali rispetto a qualcuno e c’è anche tutta una tradizione letteraria che descrive il forestiero che va alla conquista della capitale e come strumento di autodifesa, rispetto a un ambiente estraneo e ostile, utilizza il cinismo. Ma tutti i cinici hanno anche un lato sentimentale molto pronunciato, che nel caso di Jep emerge attraverso il rimpianto della ragazza amata in gioventù. Anche perché di troppo cinismo si muore».
BM: Lei descrive molte figure religiose nel film: le suore, il cardinale “ricettaro”, la Santa… Ha ricevuto un’educazione religiosa o ha fatto molte ricerche in proposito?
P.S.: «In realtà, non conosco così bene il mondo ecclesiastico, ma ho cercato di avere sui tanti contesti mostrati uno sguardo onesto e sensibile. Jep a un certo punto della storia sente il bisogno di recuperare una dimensione sacra, ma prima viene rimbalzato dal cardinale (un magnifico come sempre Roberto Herlitzka, ndr.) e poi incontra la Santa che con il suo farlo tornare a una dimensione più povera e semplice gli offre una certa serenità».
BM: Alla fine che cos’è la Grande bellezza? Un concetto metafisico o l’essenza della Città eterna?
P.S.: «Quel che mi premeva forse mostrare è la bellezza della fatica di vivere. Per questo il film è così lungo e pieno di personaggi e situazioni. Il film contiene in sé tutte le domande che ci poniamo ogni giorno, i perché… Jep non trae più piacere da nulla, neppure dal sesso. Ha un età (65 anni, ndr) in cui non si può più credere di poter essere felici…».
BM: Cosa c’è di suo in questo personaggio?
P.S.: «Non lo saprei dire. Non è vero che non mi appartenga o che non mi senta coinvolto. Anche io sono un napoletano approdato a Roma. Un provinciale nella Capitale, da cui rimango sempre stupito, affascinato, meravigliato: dalla gente così come dalla città. Napoli ha dimensioni rassicuranti, che vivendo a Roma vengono meno».
BM: Come hanno preso il film i romani?
P.S.: «Io li guardo tutti con uno sguardo benevolo e tenero. C’è chi si sente troppo coinvolto e si ribella, altri con grande onestà intellettuale si riconoscono e ci scherzano su, congratulandosi con me per aver colto così precisamente la loro realtà».
BM: Come mai in una rappresentazione così a 360° manca la descrizione della politica?
P.S.: «Perché se ne parla troppo. Il film è anche un’occasione per per andare oltre e non fossilizzarsi su certi stereotipi».
BM: La domanda era inevitabile e gliel’hanno già fatto in molti: questo film è equiparabile a quello che fu La dolce vita per Fellini?
P.S.: «Fellini realizzò un affresco meraviglioso di Roma, il mio film è più calibrato: una galleria di personaggi che raccontano una città e un modus vivendi, senza giudizi».
BM: Positif e LeMonde hanno cassato il suo film senza vederlo. Che effetto le fa?
P.S.: «È un atteggiamento che queste due testate hanno sempre avuto nei confronti del mio cinema. Ne prendiamo atto senza scomporci più di tanto».
BM: Ad altri stranieri invece è piaciuto molto. Pensa che piaccia loro vedere esposti i punti deboli del nostro Paese?
P.S.: «Credo sia un luogo comune quello degli stranieri che non vogliono trovare film che parlino bene dell’Italia. C’è sempre stato un grande amore per il nostro cinema, per Tornatore e Salvatores per esempio. Non hanno un’idea preconcetta».
BM: Non trova imbarazzanti certe figure che lei dipinge in modo così grottesco?
P.S.: «Non provo imbarazzo, anzi. Io trovo anche una recondita bellezza nel frequentare persone squallide o considerate non interessanti».
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Foto: Getty Images
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