Ho sempre nutrito una certa diffidenza per i film-laboratorio, nati per approssimazione da enormi quantità di girato, costruiti spesso improvvisando – cioè per ispirazioni estemporanee – su un’idea/luogo di partenza. Le meraviglie di Alice Rohrwacher – primo e unico film italiano in concorso a Cannes 2014, accolto alle proiezioni stampa da qualche applauso, qualche fischio e molti volti perplessi (guarda il trailer) -, ha il pregio di riflettere uno sguardo d’autore, cioè sufficientemente originale e discernibile, ma ha il problema di avere pochi punti fissi che sono tutti cliché e un pressapochismo della struttura narrativa troppo calcolato per essere davvero interessante.
Nella prima parte facciamo la conoscenza di una famiglia di apicoltori – padre, madre e quattro figlie piccole – che vive in Toscana, in un grande casolare di campagna vicino al mare. Il racconto della convivenza di queste bambine con le api, l’abitudine al lavoro maturata presto e con naturalezza, la descrizione del legame con i genitori, il territorio e gli insetti da cui dipende la loro vita, sono la cosa migliore del film. Scopriamo poi che il miele viene prodotto in un laboratorio non a norma, e che la necessità di sistemarlo richiede spese insostenibili. Il peso di questa piccola crisi economica cade in particolare sulle spalle della figlia maggiore Gelsomina, ansiosa e iper-responsabile. A dare una mano arriva un ragazzino reduce dal riformatorio, ma le bambine sono affascinate da una differente via d’uscita: al paese è infatti arrivata una troupe televisiva, e sta per andare in scena un reality show che premierà una delle aziende della zona.
Questa traccia è sviluppata con i toni del naturalismo magico, apponendo a uno sguardo teoricamente neutro sulla natura (del paesaggio e dei protagonisti) elementi onirici che sembrano scaturire dalla coscienza dei personaggi (il cammello in giardino, qui a Cannes già equiparato ai fenicotteri di Sorrentino; il letto nei campi; la figura del piccolo delinquente che improvvisamente diventa fantasmatica). La massima espressione di questa ambiguità di tono è nel miscuglio di lingue mal parlate/recitate dai protagonisti e nella messa in scena felliniana del teatrino televisivo, il cui significato letterale (un reality show degli albori, siamo negli anni ’90) slitta continuamente in quello metaforico (la trasmissione va in scena in una grotta, la Bellucci/presentatrice è conciata come una sirena).
Gli argomenti di questa seconda parte della storia, oltre che francamente banali, alla fine non conducono né a una risoluzione classica della trama, né a un’aggiunta di significato, né a a suggestioni astratte degne di nota (la scena delle ombre nella grotta è variamente interpretabile ma fondamentalmente pretestuosa), e si finisce domandandosi se tanta sensibilità per i caratteri, cui ha senz’altro contribuito l’elemento autobiografico, non richiederebbe un po’ più di struttura e autocontrollo.
Qui le star del film al photocall
Cannes 2014: photogallery, recensioni, conferenze stampa e video del Festival
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