Suspense e thriller sono le componenti fondamentali del film Captives, ambientato in un Canada freddo, avviluppato in una morsa perenne di ghiaccio e neve. Un ambiente che aiuta a sospendere la linearità temporale in favore di una discontinuità nel racconto del rapimento di e del ritrovamento, dopo otto anni, di Cassandra. Ryan Reynolds e Mireille Enos sono i suoi genitori, mentre Rosario Dawson e Scott Speedman i detective incaricati di ritrovare la bambina, rapita dal pedofilo interpretato da Kevin Durand.
Di seguito le dichiarazioni del cast e del regista intervenuti sulla Croisette (guarda le immagini più belle del photocall):
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Come avete svolto le ricerche sui vostri persoaggi, investigazioni e rapimento di minori?
Ryan Reynolds: «Purtroppo c’è molto materiale su queste tragedie. In questo caso la tragedia divide la coppia, allontana marito e moglie. La speranza che nutrono di trovare la figlia non li unisce, ma li separa perchè il senso di colpa di lui e le accuse di lei bloccano il rapporto. Queste dinamiche mi affascinavano molto».
Mireille Enos: «Il mio personaggio vive diversi livelli di rabbia. È sospesa nel tempo, nel momento della scomparsa della figlia, e per otto anni vive quel presente ogni giorno. Non riescono a stare nella stessa stanza lei e suo marito, anche se non hanno divorziato: è un sentimento molto forte, che posso comprendere perché sono una madre anche io».
Scott Speedman: «Mi sono documentato molto per il mio ruolo di detective e ho letto molti libri a riguardo, fra cui One child at the time di Julian Sher».
Rosario Dawson: «Quando interpreti un personaggio che non stacca mai dal suo lavoro devi entrare nella sua psiche. Lavorando a casi di minori scomparsi, ogni volta che esce di casa e va in un locale non riesce a staccare e a non pensare alle vittime dei casi irrisolti. In un lavoro come questo purtroppo non esiste sempre l’happy ending. Guardi le ragazze diventare grandi e non puoi arrestare i responsabili».
Kevin Durand: «Io sono ancora terrorizzato. Terrorizzato dal personaggio e onorato che per Atom ero perfetto per il ruolo. Ho letto la storia e mi ha sconvolto parecchio, mi sono documentato molto e tutto ciò continua a spaventarmi. Ho pensato però che fosse una sfida da accettare per un film come questo».
Il rapporto con la polizia del tuo personaggio è controverso, che cosa spinge Matthew a non fidarsi delle forze dell’ordine?
RR: «Il mio personaggio non è che non creda nella polizia, è spinto dalla speranza di poter ritrovare sua figlia e non si fida di nessuno. Vorrebbe fare di più, e all’inizio è anche sospettato di aver venduto sua figlia. È un peso forte da portare, vive sempre nel senso di colpa e cerca di trovare un modo per superare la cosa».
La tecnologia, usata nei modi giusti o sbagliati, gioca un ruolo fondamentale nel film:
Atom Egoyan: «La nostra società è concentrata sulle nuove tecnologie, intere sottoculture sono improntate su questo, che la storpiano per scopi malvagi. Questo purtroppo non è un contesto irrealistico. È insidioso pensare come le tecnologie possono essere usate per il bene o per il male».
Sei tornato nel lato freddo del Canada, la tua nazionalità è una delle scelte che ti ha spinto ad accettare il progetto?
RR: «Non c’è una scelta nazionalistica di fondo in realtà. Atom è un grande regista e quando mi ha mandato la sceneggiatura non potevo non accettare. Sono 23 anni che faccio questo lavoro e vuoi sempre lavorare con grandi registi anche se non ti pagano o ti pagano poco, il cachè diventa sempre secondario. Volevo lavorare assolutamente con lui. Mio fratello in Canada poi fa un lavoro simile a quello dei detective del film. Ne ho parlato molto con lui e mi ha aiutato a comprendere meglio cosa accade in questi casi nella realtà».
Qual è stata la scintilla originale che ti ha mosso a fare questo film?
AE: «Purtroppo ho vissuto un’esperienza simile vicino casa in Canada dove abitavo. Ogni volta che torno a casa vedo i poster del ragazzo scomparso: mi ha colpito molto e spinto a fare un film su questo triste fenomeno. Alla base c’è questo, ma l’approccio è diverso. Quando ho pensato al film mi sono immaginato queste tre coppie. Il rapporto che si sviluppa tra rapitore e vittima, dove addirittura si arriva alla perversione di lui di voler sposare la sua vittima. C’è invece la coppia dove il matrimonio c’è, ma marito e moglie non possono stare insieme per la continua tortura che riporta alla mente di lui che è colpa sua se la figlia è sparita. C’è anche la coppia che si sviluppa con il lavoro dove però la fiducia viene tradita. Sono sei personaggi diversi che erano con me e molto presenti durante tutto il periodo di stesura della sceneggiatura».