Cannes 2014: Kristen Stewart nell'inferno di Guantanamo in Camp X-Ray. La recensione
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Cannes 2014: Kristen Stewart nell’inferno di Guantanamo in Camp X-Ray. La recensione

Il film è stato mostrato oggi agli accreditati del Marchè du Film

Cannes 2014: Kristen Stewart nell’inferno di Guantanamo in Camp X-Ray. La recensione

Il film è stato mostrato oggi agli accreditati del Marchè du Film

Al Festival di Cannes Kristen Stewart arriverà giusto per la chiusura, a fianco di Juliette Binoche e Chloe Moretz nel film di Olivier Assayas Clouds of Sils Maria, ma intanto al Marché du Film è passato un piccolo film indipendente che la vede assoluta protagonista: Camp X-Ray. Ambientato nel 2008 nella famigerata prigione/lager di Guantanamo per sospetti terroristi, racconta l’esperienza di una giovane recluta nel più discusso dei tre campi presenti nell’area, quello destinato in seguito ad essere chiuso.
Il film non segue né la strada facile del nonnismo machista (vedi Soldato Jane) né quella prevedibile (e ragionevole) del cinema d’inchiesta alla Redacted: gli anni e le inchieste hanno evidentemente creato lo spazio per costruire sul tema un tradizionale melò interculturale, in cui le violenze fisiche ai prigionieri restano sullo sfondo rispetto alle loro conseguenze psicologiche e alla storia minima di un uomo e una donna. Si intuiscono giusto dai rapporti scarabocchiati a penna che la protagonista scova per sbaglio o dalle cicatrici rimarginate, sotto la doccia.

La Stewart è Amy, una ragazza di minuscola provincia che si arruola nell’esercito per istinto e nebuloso idealismo. “Volevo fare qualcosa che contasse, e poi altri ragazzi del mio paese l’avevano fatto prima di me” dice ad Alì, il prigioniero musulmano che la chiama “Blondie” (Payman Moaadi, il protagonista iraniano di Una separazione) e cerca di instaurare con lei un rapporto personale e un canale di comunicazione privato. Un legame che cresce faticosamente tra il cortile della prigione e la porta della cella, all’ombra di comprimari monodimensionali e accessori: commilitoni bruschi e immaturi, e detenuti (così devono essere chiamati, le spiega il sergente, e non “prigionieri”, poiché questi ultimi godrebbero dei diritti garantiti dalla Convenzione di Ginevra) fuori controllo, letteralmente ringhianti.

Amy annusa i suoi colleghi, partecipa ai party organizzati dai superiori, quasi finisce a letto con uno di questi. Ma pian piano la violenza banale e gratuita somministrata regolarmente e senza clamore ai prigionieri (i letti senza cuscini, le notti tutte con la luce accesa, le docce in pubblico, l’alimentazione forzata, gli interrogatori casuali) la avvicinano ad Alì.
Il messaggio ovvio è l’invito alla mediazione culturale, al passo di entrambe le parti nella stessa direzione. È chiaro che Amy comunica e comprende Alì perché Alì si comporta come un occidentale, cioè segue schemi mentali e linguistici, ed ha perfino gusti, occidentali (è angustiato perché tra i libri che gli vengono forniti non c’è l’ultimo libro della saga di Harry Potter!). In questo il film è molto più didattico che coraggioso: la scelta di usare un approccio morbido alla cronaca e un’icona americana per ragazzi come centro narrativo, definisce il suo pubblico.

La Stewart, che poi è la ragione per cui il film ha trovato i finanziamenti, e Moaadi sono bravi, e in particolare la ex-Bella di Twilight continua a bucare lo schermo anche fuori dal recinto young adult, dimostrando di meritare buoni copioni e tenere in piedi quelli mediocri. Qui, tra l’altro, si spende in almeno tre sequenze toste: spacca una lattina di birra a testate, si becca una doccia di escrementi, e poco prima un paio di sputi e un calcio sui denti. Sembra insomma avere una gran voglia di mettersi in gioco.

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