Dopo la delusione del film di apertura Grace di Monaco (leggi la nostra recensione) e del primo titolo in concorso, Timbuktu di Abderrahmane Sissako, il primo film davvero buono del Festival lo vediamo… fuori dal Festival, ovvero alle proiezioni del Marché, il mercato dei film, quello in cui produttori e distributori trattano il prezzo per far uscire i film in un determinato territorio.
Forse è improprio definire God’s Pocket l’eredità artistica di Philip Seymour Hoffman, ma nel film di John Slattery (il Roger Sterling di Mad Men) ci sono molti degli elementi che hanno accompagnato la sua carriera. Tratto da un romanzo di Pete Dexter (uno che, a quanto ne so, non ha ancora scritto un libro brutto), racconta tre giorni particolarmente disgraziati della vita di un orrido sobborgo di Philadelphia chiamato appunto God’s Pocket. Baracche scrostate che sono abitazioni e pub, recinti bucati e vicoli puzzolenti fanno da cornice alla storia di Mickey Scarpato, autista di un camion frigorifero per conto dell’amico Arthur (John Turturro), che si trova in guai grossi quando perde alla corse il denaro necessario per organizzare il funerale del figlio della sua compagna Jeanie (Christina Hendricks), morto in seguito a un incidente in fabbrica.
Mickey è un uomo stanco e appesantito ma non stupido né privo di una sua morale, e naviga a vista in un mare di casini sempre più grossi. Con una singola scelta sbagliata mette in moto una catena di eventi che non è più in grado di controllare e a cui si abbandona con ammirevole autocontrollo. C’è nel film il senso di una tragedia ridicola e inarrestabile che lo fa assomigliare a Onora il padre e la madre. C’è il carico di un quartiere esteticamente invivibile, di gente aggrappata a mansioni semplici (il macellaio, gli operai, la fiorista), indurita dalla routine senza fondo più dei piccoli mafiosi – che infatti finiscono uno peggio dell’altro -, o degli intellettuali-star, che poi sono al massimo il colonnista di un quotidiano di larga periferia. C’è il senso di una comunità senza obiettivi, sterile ma unita.
Un piccolo thriller geometrico, che avrebbe potuto scrivere Mamet o girare Lumet, senza una regia d’autore, ma con una narrazione forte di senso e ben condotta. E Hoffman è né meglio né peggio di altre volte, quindi pur sempre il migliore di tutti.
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