Tanti applausi, perfino una piccola ovazione, alla prima proiezione stampa di Carol, il dramma vintage con Cate Blanchett e Rooney Mara.
Il regista è Todd Haynes, che già aveva fatto qualcosa di simile nel 2002 con Lontano dal paradiso. Lì c’era Julianne Moore al posto della Blanchett, e un amore interrazziale e interclassista (con un giardiniere nero) al posto di quello lesbico, che qui coinvolge una donna dell’alta borghesia e la commessa di un grande magazzino. L’idea di cinema è però identica, c’è una stilizzazione assoluta, si ricostruisce ad arte il melò “composto” degli anni ’50 (il riferimento che si cita sempre sono le opere di Douglas Sirk, ma pensate pure a Mad Man), e poi si usa la passione come unico movimento in un contesto immobile e imitativo, scandalo sociale nel film e rottura dell’equilibrio formale del film (quando si scopre il seno nudo di Rooney Mara, e poi si mostra esplicitamente l’atto sessuale).
La modernità è quindi in questo paradosso del mostrare quel che non si potrebbe, e del fare quel che non si dovrebbe, nello spaesamento. Problema: la messa in scena è talmente calligrafica, c’è una tale ossessione imitativa nei costumi, nelle scenografie e nella grana dell’immagine, che viene quasi da pensare al modellismo, a – che ne so – l’attenzione maniacale di quelli che ricostruiscono le navi nelle bottiglie, è una bellezza che fatica a scaldare gli animi (almeno il mio).
Avevo appunto trovato all’epoca di Lontano da lei questo sforzo tecnico di ottimo gusto ma un po’ inerte, abbastanza invadente da spegnere il melodramma; stavolta ho avuto sensazioni differenti, alla fine il destino delle due protagoniste cattura al di là della gratificazione cinefila dello sguardo e della memoria. Anche se il momento davvero sublime, forse l’unico, è nell’ultima frase di Carol al marito (non ve la spoilero).
Forse non sarà Palma d’Oro, ma qualche premio lo porta a casa.
Tutt’altra accoglienza per il secondo americano in concorso, Gus Van Sant, il cui The Sea of Trees, con Matthew McConaughey, si è beccato un coro di ululati e fischi.
Un uomo vola in Giappone, poi si fa portare nei boschi intorno al Monte Fuji, il mare di alberi del titolo è una specie di foresta dei suicidi. Qui comincia a impasticcarsi, quando vede un uomo girovagare tra i sentieri e decide di soccorrerlo. Il film segue la conoscenza dei due, e mostra in flashback la storia dell’americano, il perché della depressione.
Purtroppo è tutto fragile e pretenzioso, Matthew McConaughey è sempre bravo ma ora sta andando fuori giri, vuole fare solo film-vetrina, cerca sempre la performance-madre, dovrebbe rilassarsi un po’. E poi i colpi di scena sono elementari, ci sono troppi finali e domina un misticismo che forse funzionava nel libro d’origine, ma qui è puerile. Sembra la classica sceneggiatura costruita per far colpo, quelle che le leggi e funziona tutto, poi le giri e non credi mai a un tubo.
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