Cannes 2016: commozione e risate per La pazza gioia. La recensione del film di Virzì
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Cannes 2016: commozione e risate per La pazza gioia. La recensione del film di Virzì

Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti sono due donne con un passato complicato, che si mettono in viaggio, scappando assieme da un gruppo di sostegno e cura psichiatrica nella campagna toscana

Cannes 2016: commozione e risate per La pazza gioia. La recensione del film di Virzì

Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti sono due donne con un passato complicato, che si mettono in viaggio, scappando assieme da un gruppo di sostegno e cura psichiatrica nella campagna toscana

La pazza gioia di Paolo Virzì è in concorso alla Quinzaine, a Cannes 69

Poi arriva anche il momento in cui bisogna decidere che cinema ci interessa, che cinema preferiamo, quando non possiamo avere i capolavori. Perché di fronte a un film come La pazza gioia, che è un atto di generosità – magari non sempre ben gestito – verso lo spettatore, o ci si mette a contare le ingenuità, o ci si abbandona al piacere caotico della visione.

Storia di Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti), due disgraziate diversamente sole e diversamente depresse, finite entrambe in un centro di recupero nella campagna toscana. Beatrice ha tutta l’energia, le parole e le iniziative che mancano a Donatella, e Donatella porta sul corpo magrissimo e tatuato i segni del dolore di entrambe.
Dopo una mattina di lavoro in una serra, il ritardo del pulmino che deve portarle indietro consente la fuga (“Ci diamo alla pazza gioia!”), che diventa poi un viaggio a ritroso nelle loro vite, un sentiero di conflitti, divertimento e conoscenza.

Il film vive su due piani. Uno è quello dell’incarnazione piena di passione delle sue interpreti, appena caricaturali eppure pian piano credibili (un po’ come Accorsi in Veloce come il vento…) nelle vesti di queste donne disastrate, a volte caute, a volte rabbiose, sempre vicine a una qualche forma di rottura, in fuga ma dipendenti dal destino che le ha portate fin lì.
L’altro è quello del percorso che alla fine le porta a una catarsi.

Ecco, se il percorso è un po’ ingenuo perché lineare, specie nel modo in cui Donatella si ritrova in faccia il suo passato (si vorrebbe che alle volte quelle due si perdessero, dentro al film, che la narrazione si emancipasse dallo script), dall’altra parte la catarsi, quando arriva, è dolcissima, quasi straziante, perché sommessa.
Ed è lì, nel momento in cui infine il film cala la testa e dice quello che deve dire, quando tutti fanno i conti con se stessi, che ti accorgi che quel che hai visto, pur con i suoi momenti troppo pieni (il tentativo di truffa in banca, la fuga in auto dal set) o le deviazioni che fanno storia a sé, ha costruito un mondo, dentro cui hai vissuto senza riserve.

 

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