Cannes 2016: Ken Loach ritorna in concorso con I, Daniel Blake. La recensione
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Cannes 2016: Ken Loach ritorna in concorso con I, Daniel Blake. La recensione

Ancora una volta, il cineasta britannico colpisce con la sua commovente umanità

Cannes 2016: Ken Loach ritorna in concorso con I, Daniel Blake. La recensione

Ancora una volta, il cineasta britannico colpisce con la sua commovente umanità

Si sente dire, “ma che noia, il solito film di Loach”. Ma non è sempre lo stesso film. È che di storie come quelle che Loach racconta ce ne sono tante, e tutte fanno male, fanno indignare, perché potrebbero accadere a noi, perché stanno accadendo a noi. E poi c’è quel modo che Loach ha di filmare, con una naturalezza così nitida, come se stesse girando dei documentari – e in gran parte lo sta facendo, mentre racconta delle storie di finzione: quelle luci così naturali, così vere, quelle strade, quel modo di inquadrare che non forza mai la prospettiva, che non cerca linee, diagonali, punti di fuga, ma che ti fa sentire sempre lì, come uno che guarda e che ascolta attento, ma in silenzio, con la compassione e il rispetto che solo Loach sa avere per i suoi personaggi. E che sa farti avere.

E ancora, la sua capacità di portarci davanti agli occhi facce che non abbiamo mai visto prima, e farcele amare, farcele sentire come persone, e non come personaggi. Come il protagonista di I, Daniel Blake, il film che ha presentato in concorso a Cannes – dove ha vinto con il suo film forse più artificioso, Il vento accarezza l’erba. Il protagonista di questo film. All’inizio non lo vediamo, sentiamo solo la sua voce, sul nero. Lui sui sessanta, e dall’altra parte una ragazza giovane. Che sta esaminando la sua richiesta di invalidità, per problemi cardiaci. “Può muovere le mani?” “Sì, ma che c’entra, io sono malato al cuore”. “Per favore, risponda alle domande. Può muovere le gambe?” “”Sì, ma io sono malato al cuore…” “Signor Blake, si focalizzi sulle domande del test, per favore”, dice la voce, gentile ma fredda, e quasi stizzita. Ecco. In quei primi minuti c’è tutto il film.

C’è un mondo nel quale molti di noi non sanno come spiegarsi, come fare arrivare le proprie ragioni ad altri che seguono le regole, che non capiscono, che non hanno nessuna voglia e nessun bisogno di capire. Daniel Blake ha sessant’anni, un infarto, quarant’anni di lavoro come artigiano dietro le spalle, ha intelligenza, ha generosità. Non sa usare il computer, non ha mai redatto un curriculum vitae, ha sempre lavorato. Non è informatico, non è compatibile con molti dei meccanismi della società inglese. E non solo di quella.

Come spesso fa, Loach ci mostra i meccanismi burocratici,“legali” delle ingiustizie che quasi tutti siamo costretti a subire, e l’ineluttabilità delle sanzioni, delle bollette da pagare, le “regole”. E ci mostra come umanità e solidarietà siano beni fragili, preziosi, gioielli in via di estinzione. Una ragazza madre, con due figli piccoli, e una precaria amicizia fra due che non hanno niente che provano ad aiutarsi, è la luce che il film ci regala. Tra le molte scene, quella in cui lei – dopo giorni di stenti, di fatiche, di delusioni, di digiuni – va alla “banca degli alimentari”, dove lo Stato ti concede di fare una spesa gratis. E per la foga, per la fame, per la disperazione accumulata, apre una lattina di conserva lì, tra gli scaffali, e cerca di mangiare, in piedi,versandosi tutto addosso, e piangendo di umiliazione quando viene scoperta. E intanto, difficile mantenere gli occhi asciutti anche per lo spettatore.

Loach è uno dei registi più “morali” che il cinema ci abbia dato. Uno dei più cristiani, nel suo convinto marxismo, a volte anche old fashioned. Uno dei pochissimi a credere ancora nell’uomo, nella bellezza dei suoi gesti di generosità e di solidarietà. Teniamocelo stretto, questo minuto ottantenne gentile.

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