The House That Jack Built di Lars Von Trier è presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2018.
LA STORIA
Jack (Matt Dillon) è un serial killer. Da qualche parte, in un luogo buio, su un sentiero che porta non si sa bene dove, racconterà a Virgilio (Bruno Ganz) i cinque “incidenti” che lo hanno portato fin lì. In attesa di compiere l’ultima parte del viaggio, e affrontare il suo destino.
LA CRITICA
Sette anni dopo essere stato bannato da Cannes per aver scherzato col fuoco, autodefinendosi un nazista (lui che nel 1998 aveva fatto suonare, sempre qui a Cannes, l’Internazionale) e definendo Israele “A pain in the ass”, Von Trier torna sulla Croisette con un film in cui, sostanzialmente, si costituisce, mettendo se stesso nei panni di un serial killer (Matt Dillon, straordinariamente in parte) misogino, nichilista e ossessivo compulsivo. Un esteta con una visione completamente amorale dell’arte.
Un architetto incapace di edificare una casa se non attraverso i cadaveri delle sue vittime.
A questo serial killer fa dire tutto quanto morirebbe probabilmente dalla voglia di dire lui stesso in una delle conferenze stampa che non gli fanno più fare, qui a Cannes almeno, in un processo parossistico di autodistruzione pubblica che ormai è solo in parte autoanalisi e catarsi, e in cui è sempre più difficile dire dove la confessione sia testo o invece pretesto.
Von Trier / Jack pesca i tabù uno a uno e li abbatte sistematicamente come birilli: vengono presi di mira bambini, donne e animali. I cadaveri vengono mutilati e poi deformati. Però la violenza non è mai accattivante, non è mai pop: c’è invece una specie di disperazione isterica, una bruttezza respingente e l’umorismo è sempre fiaccato dalla tragedia della dipendenza.
C’è davvero una libertà estrema in tutto questo, la costruzione di una zona franca dentro al clima politico del tempo e del Festival, quello che informa praticamente tutti i film in concorso (con lo zenith della Rohrwacher o di Spike Lee) e crea una specie di tedio educativo. È come se a tutte le prediche, gli auspici, i paraventi e le didascalie, Von Trier opponesse il proprio narcisismo, la propria vanità e il proprio (cattivo?) gusto, che nell’improbabile capitolo finale del film trova il suo zenith. Un estro capace di tutto, di acrobazie intellettuali e battute da quattro soldi, di slanci scenografici estremi e di materiale di repertorio, di difficili orrori e incongrua bellezza.
Ma non è che si debba necessariamente scegliere, non è che le due cose si escludano, il punto è che l’una senza l’altra è solo una diversa forma di omologazione. Il cinema di Von Trier continua ad essere quello che si porta addosso i “peccati” di tutti, quello che permette gli Jia Zhangke e i Kore-Eda, quello che crea una prospettiva intellettuale, perché è l’unico che continua a porre la questione estetica per eccellenza, cioè quanto sia lecito “estrarre” il processo artistico da quello educativo, e se stessi dalla società, lavorando sui confini del visivo.
VOTO A CALDO: 8
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Qui le foto del red carpet di The House That Jack Built.
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