The Man Who Killed Don Quixote è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2018
LA STORIA
Toby (Adam Driver) è un giovane regista americano che sta girando un film su Don Chisciotte. Budget importante, una crew che lo tratta come un re e un produttore che lo ritiene un genio. Nelle stesse zone, alcuni anni prima, aveva realizzato con pochi dollari il suo lavoro di laurea, un’opera breve in bianco e nero intitolata The Man Who Killed Don Quixote. Nella parte del protagonista un dilettante, un calzolaio incontrato per caso (Jonathan Pryce). Lo stesso calzolaio che nel frattempo, scoprirà, si è convinto di essere davvero il cavaliere errante della Mancia e lo coinvolgerà suo malgrado in una serie di avventure picaresche, in cui distinguere tra fantasia e realtà diventerà sempre più complicato.
LA CRITICA
L’impressione che si ha vedendo The Man Who Killed Don Quixote (ma in fondo valeva già per The Zero Theorem) è che il cinema di Terry Gilliam abbia perso definitivamente qualsiasi legame con il suo tempo, tanto che le controversie produttive che lo hanno accompagnato a Cannes paiono quasi un effetto collaterale della sua estraneità all’economia dei film, anche a quella festivaliera.
Realismo magico, fantasy di stracci e cartapesta, personaggi tutti sopra le righe, svelamenti incredibili e incongrui.
È come entrare in una specie di carnevale di seconda mano, o in un teatro di paese con le assi che scricchiolano: la macchina di scena sopravvive a se stessa perché dietro le quinte c’è un vecchio maestro e buoni attori che gli credono ciecamente, in pratica ci credono anche per il pubblico. Ci possono essere comprensibili perplessità per una cosa del genere, e molti resteranno delusi per certe ingenuità (qui a Cannes una ventina di giornalisti ha mollato a metà proiezione), ma se c’è una storia che sopporta alla perfezione il peso di un cinema così libero e sgangherato – anzi, quasi lo pretende – quella è proprio Don Chisciotte della Mancia. Perché è molto chiaro che per le visioni di Gilliam non ci siano più in giro i soldi necessari, ed è altrettanto chiaro che la sua poetica giustifichi ancora un atto di fantasia e uno di lealtà.
The Man Who Killed Don Quixote in questo modo cuce stupendamente la visione dell’autore a quella del protagonista, e quella del pubblico a quella di Sancio, diventando proprio il film testamentario che si poteva supporre. Il film maledetto, rimandato per vent’anni e ora tenuto in ostaggio da un produttore. Il film girato e rigirato (c’è anche un inside joke sulla famigerata alluvione che mise fine al primo tentativo, nel 1998), scritto e poi ripensato, passato attraverso la morte di due protagonisti designati (Jean Rochefort e John Hurt, a cui è dedicato) e il destino di un regista che via via perdeva tutte le sua credenziali e che ha perfino rischiato di saltare questo Festival per un malore dell’ultimo minuto.
Ecco: per chi resterà fino alla fine, assistendo agli ultimi, meravigliosi cinque minuti – dove improvvisamente il digitale esplode, dove gli effetti speciali invadono lo schermo come fuochi d’artificio, dove vediamo quello che il film avrebbe potuto essere con altre ambizioni industriali e un altro portafoglio – la sensazione di un’eredità raccolta, attori e spettatori insieme, è davvero forte.
VOTO A CALDO: 7 1/2
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Foto: courtesy of Festival di Cannes
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