Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) e Maxime, i protagonisti del nuovo film di Xavier Dolan, che oltre a sedere dietro la macchina da presa interpreta anche il secondo, sono due migliori amici fin dall’infanzia che si ritrovano a fare i conti con un’attrazione che potrebbe cambiare gli equilibri del loro presente e gli orizzonti del loro futuro, condiviso o meno che sia. Non è difficile rivedere, nelle traiettorie di entrambi, molto del vissuto del cineasta canadese, eterno enfant prodige del cinema mondiale.
Dolan nel frattempo è cresciuto, si è confrontato con un progetto sbagliato su tutta la linea (La mia vita con John F. Donovan, non ancora uscito da noi) e torna adesso in concorso a Cannes con un lavoro che lo riporta a ciò che sa fare meglio: esplorare l’incandescenza dei sentimenti, lavorare come un funambolo lungo la corda tesissima e rischiosa di un linguaggio ultra-pop, tanto sincero quanto stilisticamente ricercato e spericolato.
Nel suo esordio realizzato a 19 anni, J’ai tué ma mère, Dolan uccideva la madre per poi indirizzarle una vibrante lettera d’amore e rabbia nel successivo Mommy, con cui si consacrava proprio a Cannes vincendo il Gran Premio della Giuria. E una mamma torna, marginalmente, anche qui, con sempre la stessa attrice a interpretarla: quell’Anne Dorval che ritroviamo invecchiata e sfatta, a riprova di quanta acqua sia passata sotto i ponti e di quanto il cinema di Dolan si ben lontano dal sedersi, dall’ordinare le idee, da una pacificazione interiore ed esteriore. Tanto con i propri fantasmi materni quanto con una scomposta giovinezza che dà proprio l’idea di non volere (o non sapere) abbandonare. In sostanza, e con buona pace dell’approssimazione, Dolan se ne infischia di crescere, e ripensa ai suoi vent’anni proprio dopo averne compiuti trenta tondi tondi lo scorso marzo.
Non stupisce dunque che dopo l’accoglienza non unanime di È solo la fine del mondo e il buco nell’acqua del suo esordio americano abbia deciso di tornare a casa, nei luoghi in cui è nato, per tracciare un nuovo bilancio su se stesso e sul proprio mondo affettivo. In Matthias & Maxime siamo infatti in Québec, in degli interni in cui le discussioni tra amici sono fragorose e si sovrappongono quasi in overlapping, le sigarette fumate non si contano, i joystick della Playstation giacciono abbandonati come i piatti lasciati ad asciugare. La tenerezza e la malinconia dominano incontrastate, il trasferimento in Australia di Maxime è alle porte, le ambiguità sessuali mai esplicitate con Matthias mai così flagranti e sul punto di esplodere, l’omosessualità un motore fondante della propria identità.
Non a caso sembra un film uscito direttamente dagli anni ’90, Matthias & Maxime: ci sono dentro gli odori e i sapori di quel periodo in cui la crisi non era ancora uno scenario post-atomico dato per assodato e si poteva immaginare, tra una lacrima e l’altra, una soddisfazione ancora possibile. In tale roccaforte nostalgica il cinema di Dolan torna a palpitare e a emozionare, a brillare di luce propria e a giocarsi le proprie carte sui tavoli da gioco, che poi sono anche quelli di Matthias, Maxime e tutta la loro rumorosa compagnia, più adatti a esprimerne e cullane l’estro e il talento.
L’irresolutezza di Massime diventa la nostra e il tasso di immedesimazione raggiunge livelli non indifferenti, specialmente per i millennials che amano e idolatrano Dolan come loro portavoce, tanto da averne fatto praticamente il più limpido e indiscusso teen idol del cinema d’autore contemporaneo. E a lui, dal canto suo, ce la mette tutta per non essere da meno rispetto alla sua fama, per mostrare quanto sia difficile orientarsi nei propri conflitti fisici e mentali e venire a capo del caos di una generazione alla quale non resta che far finta di ricordare quant’era bello coprire un silenzio troppo assordante con bordate di musica a tutto volume.
Pronta a viaggiare sulle note di Always On My Mind dei Pet Shop Boys o a cercare segnali di vita, come cantano gli Arcade Fire nel corso di uno dei time-lapse del film, in cui le trasmissioni paiono ormai interrotte. Ad accettare, come accade nel toccante finale, che le proprie emozioni si trasformino in niente di più di una smozzicata, e un po’ ridicola, smorfia di dolore.
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