The Worst Person in the World del regista norvegese Joachim Trier, il cui titolo francofono è un più didascalico Julie (en 12 chapitres), racconta in capitoli quattro anni nella vita di una ragazza – interpretata da Renate Reinsve: una rivelazione assoluta -ormai prossima al compimento dei trent’anni. Accanto a lei, nel racconto, gravitano due uomini: il fidanzato Aksel (Anders Danielsen Lie), graphic novelist apprezzato e di successo, e l’aitante Eivind (Herbert Nordrum), conosciuto a una festa in cui si era intrufolata e destinato a scompaginare ulteriormente la sua esistenza.
Presentato con merito nel Concorso al 74esimo Festival di Cannes, Verdens verste menneske (titolo originale) è una moderna dramedy sulla ricerca dell’amore in un contesto di precarietà tanto affettiva quanto lavorativa, che a dirla tutto spesso forzosamente, specie oggi, si ritrovano a convivere. Trier veniva da due film molto diseguali, nonché diversissimi, come il dramma borghese Segreti di famiglia e il thriller soprannaturale Thelma, ma con questa nuova sortita dietro la macchina da presa ha davvero sparigliato tutte le carte che si potevano sparigliare, consegnandoci la commedia romantica con ogni probabilità più bizzarra dell’anno, e di sicuro la più folgorante.
The Worst Person in the World è un film dolce ed esistenzialista ma anche pirotecnico e nostalgico, con una brillantezza in scrittura quasi “alla Woody Allen”, a voler usare il riferimento più abusato da scomodare nei casi, sempre più rari, di commedie umanissime e nevrotiche, cesellate con mano sicura e coscienza esilarante e nichilista del proprio posto nel mondo. Si affrontano con acutezza temi come la maternità, la sessualità e le fellatio al tempo del #MeToo, la scorrettezza politica a tutti i costi; a tratti c’è qualche furbizia e scaltrezza di troppo, più conciliatoria che dissacrante, ma l’intelligenza è talmente evidente che ci si perde senza accorgersene dietro dei dialoghi puntualmente magici, in grado di sollevare lo spirito da terra anche nei momenti più strazianti, scostanti e umorali.
Quella di Trier, ambientata in una Oslo ovviamente asettica ma comunque malinconica e autunnale come se piovesse dall’inizio alla fine e vi trovassero posto solo negozi di libri vintage, è essenzialmente una romantic comedy che – vivaddio – torna ad essere un’educazione sentimentale dal sapore universale. Un coming of age tardivo per dei quasi trentenni che sembrano imbrigliati in un’eterna, inalienabile adolescenza pur sapendo benissimo che sarebbe anche ora di crescere, solo che materialmente non possono o non vogliono o non riescono a farlo.
Ma è anche, ed è un aspetto importantissimo, un film completamente e deliberatamente folle, letteralmente imprendibile dall’inizio alla fine: il minuto prima si sorride, quello dopo ci si commuove (in entrambi casi spesso alle lacrime) e l’attimo dopo ancora ci si ritrova a vedersi esplodere un petardo tra le mani, data la repentinità con cui il film fa e disfa spunti e registri. E il merito è in gran parte di Renate Reinsve, mattatrice impeccabile e magnetica ovunque la si metta, a prescindere dai timbri dei singoli momenti.
Il risultato è un’ottovolante di emozioni che non rinuncia in nessuna occasione al sottofondo di un dolcissimo, malinconico e tambureggiante sconcerto: siamo di fronte, a conti fatti, a una variazione sul tema, contemporanea e perfino vertiginosa, della screwball comedy classica americana, riletta con grazia e svagatezza totalmente anarchiche e nella quale è impossibile traccia una linea di demarcazione netta tra i momenti lacrimosi e quelli caustici (e va detto che sono davvero pochi oggi, i cineasti che riescono a fare questa roba).
Un appunto finale: tra le tante sequenze struggenti e su di giri, che ne fanno un oggetto pop esplosivo e inclassificabile, proponibile a qualunque tipo di pubblico (anche non strettamente cinefilo) con la medesima forza, la migliore è proprio la scena della seduzione alla festa. Un momento di cinema altissimo, nel quale non sono mai i corpi, nemmeno per sbaglio, a veicolare tenerezza, curiosità ed erotismo: ci pensano sempre e solo le parole, gli sguardi, gli inciampi imbarazzati e imbarazzanti che lì per lì inorridiscono e diventano pepite d’oro della memoria e ricordi insostituibili il mattino dopo. Magari immaginandosi, come fanno Julie e Eivind su una panchina degna di La La Land, un’alba che forse è già andata via, o forse non è addirittura mai nemmeno esistita.
Foto: An Oslo Pictures, MK Prods., Film I Väst, Snowglobe, B-Reel production in co-production with Arte France Cinéma in association with Memento Distribution, mk2 films, Arte France
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