Alla fine, a Cannes, ha vinto un film francese, ad appena due anni di distanza da Titane di Julia Ducournau: Anatomy of a Fall di Justine Triet si è infatti aggiudicato la Palma d’Oro svettando – tra l’altro in un Concorso di livello molto alto – non senza una buona dose di meriti. Per il festival non può che essere il suggello perfetto di un’edizione particolarmente ricca e ingombrante per titoli e qualità (la prima davvero post-pandemica, alla prova dei fatti e al netto dei tantissimi, innegabili affanni degli accreditati), oltre che una medaglia da appuntarsi sul petto e da rivendicare. Dopotutto, i titoli che può vantare la Francia come Paese, anche solo di co-produzione nella competizione ufficiale, sono, a ben vedere, praticamente la metà.
Le Palme francesi sono state ovviamente molte nella storia di Cannes, anche se spesso ben più distanziate nel tempo. Un motivo per cui aver ritrovato la capacità di imporsi nuovamente, e a così breve distanza temporale dall’ultima volta, dice sicuramente più di qualcosa. Anatomie d’une chute, nello specifico, è un titolo che è stato immediatamente salutato sulla Croisette come un’opera importante e ha avuto un’ottima accoglienza critica, si sapeva che sarebbe andato a premio o che poteva comunque ambire tranquillamente a un riconoscimento di primo piano.
Il film è il racconto di un rapporto di coppia che finisce in tribunale e viene vivisezionato in sede legale nel momento in cui gli inquirenti si ritrovano a sospettare che il marito potrebbe non essersi suicidato in uno chalet di montagna, ipotizzando dunque delle responsabilità da parte della moglie, una scrittrice tedesca. È cinema popolare ma di alta statura formale: un dramma sensibilissimo alle psicologie, al naturalismo della recitazione e alla verosimiglianza commovente della scrittura, che cerca la profondità dell’opera d’autore donando attualità e potenza morale ai consueti meccanismi da legal thriller.
Un oggetto cinematografico che è facile metta d’accordo le diverse personalità di una giuria, eterogenee per cultura, provenienza geografica e formazione, ma anche un film che forse potrà trovare più facilmente il suo pubblico rispetto all’eccezionale ma più spigoloso Saint Omer, visto e premiato alla scorsa Venezia, e a Le procès Goldman, che ha aperto quest’anno a Cannes la Quinzaine des Cineastes, a riprova di come il cinema francese sia molto avvezzo a chiudersi nelle aule di tribunale per indagare l’umanità e le sue leggi. Una Palma, quella di Triet, che uscirà nelle sale italiane con Teodora Film, distribuzione che porta a casa la “doppietta” dopo Triangle of Sadness di Ruben Östlund, vincitore lo scorso anno e presidente di giuria quest’anno.
The Zone of Interest di Jonathan Glazer, tra i film più acclamati del Concorso, si è dovuto accontentare del Grand Prix, il secondo premio per importanza del palmarès, nonostante fosse per molti il favorito della vigilia. Si tratta di un monumentale saggio sull’immagine, un teorema pittorico lucidissimo in cui l’Olocausto è osceno per definizione – fuori scena, non riproducibile – e le minuzie visive fanno tutta la differenza del mondo nel definire l’architettura compositiva delle singole inquadrature. Il britannico Glazer ha provveduto a scarnificare all’osso il romanzo di Martin Amis, scomparso appena dopo la prima mondiale del film a Cannes, in un’opera di straordinaria perizia ma certamente non per tutti i palati, che può aver creato qualche frattura e dissonanza in giuria mancando così il bottino pieno. Poco male, perché i premi non sono mai tutto ma più che altro dei facilitatori per la vita di un film e quello di Glazer, anche senza Palma, rimane un lavoro imperdibile e maiuscolo (lo porterà in Italia I Wonder Pictures).
In queste ore ovviamente non possono mancare le solite e puntuali levate di scudi sull’assenza di film italiani dal palmarès – in un anno in cui ne schieravamo ben tre in Concorso – e sulla necessità di tornare a imporci a Cannes, qualunque cosa voglia dire. La solita litania, insomma, che usa il nazionalismo provinciale come arma di distrazione di massa e fa finta di dimenticare che i premi che si vincono ai festival sono dovuti non solo alla qualità dell’opera ma anche alla sua capacità politica di incidere sul presente e le sue esigenze, dinamiche, dibattiti, urgenze. Se si riduce tutto alla dimensione del tifo per la causa tricolore non si fa un buon servizio a nessuno, men che meno al cinema italiano.
Dalla lettura bellocchiana del rapimento Mortara in Rapito all’Italia arcaica e misteriosa de La chimera di Alice Rohrwacher, passando per l’autobiografismo senile e idiosincratico di Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire, tutto giocato su rime interne alla filmografia dell’autore e che purtroppo ha notevolmente scontentato la critica internazionale a Cannes (La chimera, invece, è andato a sorpresa benissimo in questo senso, ma non è bastato), è impossibile non notare come nessuna di queste tre opere avesse le caratteristiche per imporsi su larga scala in un Concorso di pesi massimi, senza che ciò rappresenti una tragedia per cui stracciarsi le vesti (dopo gli Stati Uniti e ovviamente la Francia, siamo pur sempre il paese che ha vinto più Palme d’oro) né una negazione dei meriti delle singole opere, che restano comunque tanti.
Per quanto riguarda gli altri riconoscimenti, va dato merito alla giuria, nella quale c’erano anche gli attori americani Paul Dano e Brie Larson, di aver spartito i premi tra tutti i titoli più meritevoli, con un lavoro decisamente attento che per una volta ha fatto il paio anche con le sensazioni e le reazioni dei critici sulla Croisette. Il premio per l’interpretazione maschile a Koji Yakusho, ad esempio, era tanto telefonato quanto sacrosanto per la capacità dell’attore giapponese di sposare e accompagnare meravigliosamente, negli occhi e nello sguardo, la poesia minimalista del film di Wim Wenders Perfect Days, sulla quotidianità di un uomo di lavoro lava i bagni pubblici a Tokyo ma si diletta con la fotografia, passione primigenia del regista tedesco, che omaggia Ozu e non dimentica un’etica da neorealismo zavattiniano. Lo distribuirà Lucky Red.
Forse più generoso, ma senz’altro calzante, il premio alla regia al vietnamita naturalizzato francese Tran Anh Hung per La passion de Dodin Bouffant (altro titolo Lucky Red), che però sulla messa in scena pittorica e oleografica investe tantissimo per accompagnare lo spettatore nei meandri sottili e impalpabili di una storia d’amore sussurrata e sui generis, sullo sfondo dell’alta cucina e della preparazione interminabile di piatti elaborati. Non fa una grinza invece il premio alla miglior sceneggiatura a Yūji Sakamoto per Monster di Hirokazu Kore-eda (Lucky Red/Bim), che avvalendosi di un copione non suo ha lavorato su una struttura narrativamente composita, alla Rashōmon di Akira Kurosawa. In essa il punto di vista di ogni personaggio aggiunge dei tasselli in più al racconto, lo chiarisce e lo amplifica, trovando via via nuovi ribaltamenti, sottigliezze, pieghe psicologiche e morali più profonde e sfaccettate, dentro una storia sulla distanza tra giovani e adulti, elemento tematico ricorrente del concorso di quest’anno (in chiave sessuale lo si è visto anche, con donne impegnate in relazioni con ragazzi più giovani, in May December di Todd Haynes e L’été dernier di Catherine Breillat).
Leggermente più spiazzante, ma decisamente meritato, è il premio alla miglior attrice a Merve Dizdar, l’attrice turca che per About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan (a distribuirlo sarà Movies Inspired) ha sbaragliato la concorrenza di Natalie Portman e Julianne Moore in May December (film in ogni caso troppo weirdo e singolare nel tono per vedere premiate delle performance attoriali) e soprattutto quella di Sandra Hüller, protagonista di Anatomy of a Fall e candidata di peso per il premio, “disinnescata” tuttavia dalla Palma vinta dal film. Il suo è un personaggio tutto sommato piccolo ma cruciale nella fluviale opera del cineasta turco, con un handicap fisico che ne amplifica la durezza e il mistero e in grado di rubare la scena, a prescindere dal minutaggio accordatole, grazie a una delle scene di dialogo più potenti, devastanti e d’impatto, sul piano filosofico e psicologico, che il cinema contemporaneo abbia prodotto negli ultimi anni.
Dispiace, infine, per Aki Kaurismaki, maestro finlandese che purtroppo non ha mai vinto una Palma d’oro a Cannes e che con Fallen Leaves aveva firmato probabilmente il manifesto romantico di tutta la sua filmografia e raggiunto un singolare apice di semplicità straniante, umorismo deliziosamente beffardo e commozione non aggirabile (uscirà in Italia anch’esso con Lucky Red/Bim). Al momento dell’annuncio del premio della giuria, il contentino più “basso” del palmarès (ma pur sempre un premio!), non è stato difficile intravedere un’ombra – forse di malinconia e rimpianto, chissà – nello sguardo del presidente di giuria Östlund, che forse aveva provato a strappare qualcosa in più per lui ma senza raccogliere grande sostegno dai suoi colleghi giurati.
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