Lo scorso 31 marzo, l’uscita di C’è ancora domani di Paola Cortellesi sulla piattaforma Netflix, oltre che su Sky Cinema e Now Tv, ha rilanciato il dibattito intorno all’opera prima dell’attrice romana.
Non c’è alcun dubbio che, con i suoi oltre 36 milioni di euro di incasso, la storia di Delia – moglie infelice di un marito violento, raccontata sullo sfondo della Roma popolare del 1946, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale – non si sia limitata a polverizzare i record, battendo perfino blockbuster internazionali come Barbie di Greta Gerwig e Oppenheimer di Christopher Nolan, ma abbia scritto una nuova pagina di Storia del Cinema italiano.
Al netto di qualunque giudizio critico, infatti, il successo di C’è ancora domani è assolutamente anomalo, paragonabile solo ai risultato di opere comiche dai toni ben più lievi, come i film firmati da Checcho Zalone con Gennaro Nunziante. E immancabilmente, un gran numero di spettatori e critici non hanno potuto che interrogarsi sulle ragioni di tanto clamore.
Secondo una brutta abitudine nostrana, gli autori di successo diventano frequente il bersaglio di una certa acredine da parte della critica online, senza contare che Paola Cortellesi era destinata a scontare una duplice colpa: il successo popolare e il genere femminile. Immancabile quindi l’aggettivo principe, utilizzato per liquidare senza troppe spiegazioni quel che sarebbe un capolavoro solo agli occhi degli spettatori più stolti e ineducati: “didascalico”.
In compenso, mentre in molti invadevano i social con post esplicativi riguardo la scarsa qualità del film, il successo di C’è ancora domani continuava a a crescere in maniera esponenziale, tornando a riempire le sale cinematografiche dopo gli anni di profondissima crisi legati alla Pandemia. La vicinanza tra l’uscita del film il 26 ottobre 2023, dopo la presentazione alla Festa del Cinema di Roma (dove ha vinto il Premio Speciale della Giuria e quello per la Miglior opera prima) e il terribile caso di femminicidio di Giulia Cecchettin, studentessa ventiduenne assassinata l’11 novembre dal suo ex fidanzato, avrebbe poi contribuito secondo alcuni all’esplosione del caso Cortellesi. Un dato che, naturalmente, può essere letto da un duplice punto di vista. Un aiuto alla promozione di un film altrimenti mediocre per i detrattori, la conferma di quanto il film sappia intercettare lo spirito del tempo, raccontando una delle più terrificanti ferite aperte del presente per gli estimatori.
In un dibattito tanto polarizzato, spaccato tra hater e grandi entusiasmi, si è probabilmente persa di vista la benché minima obiettività dell’analisi critica. Per questo, sarà bene ripartire da una unica ma salda certezza: C’è ancora domani non è un film neorealista.
Il paragone tra l’opera prima di Paola Cortellesi e il più importante movimento della Storia del Cinema italiano, nonostante l’utilizzo del bianco e nero, le location tipiche delle borgate romane e l’anno di riferimento del film, benché ripreso anche dalla stampa internazionale, risulta infatti decisamente superficiale, denotando più che altro una scarsa conoscenza della poetica e delle istanze appartenute a Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini.
Benché non si trattasse di una vera e propria Avanguardia e non esistesse per questo alcun Manifesto programmatico, nelle parole del teorico e sceneggiatore di Sciuscià, Ladri di biciclette e Umberto D. Cesare Zavattini resta infatti chiaro quale fosse l’obiettivo, l’anima e il cuore del Neorealismo: la cosiddetta “teoria del pedinamento” o del “cinema della presenza”. L’idea di Zavattini è ingaggiare un autentico corpo a corpo con la realtà e con il presente, mentre la macchina da presa deve letteralmente pedinare il personaggio, perché riveli la verità sull’uomo attraverso i suoi gesti quotidiani, ben oltre le sovrastrutture della finzione scenica. Le ambientazioni reali, gli attori non professionisti, presi dalla strada, le macerie reali dell’Italia piegata dalla guerra, l’ispirazione ai più recenti fatti di cronaca sono tutti elementi determinanti per realizzare un’idea precisa: “il cinema deve afferrare la realtà per la gola prima che essa si trasformi”.
L’attualità del tempo presente, raccontato nella sua verità impietosa, mai edulcorata, non ha quindi nulla a che vedere con una operazione come quella di Paola Cortellesi, la quale ha realizzato piuttosto un’opera fortemente contemporanea, ascrivibile al profilo della dramedy. O forse sarebbe meglio dire un’opera post-moderna, pronta a giocare sulla fusione dei più diversi generi, come il musical, il quale entra di prepotenza nella storia, trasformando la violenza in balletto. E più che del Neorealismo, il film sembra figlio della Commedia all’italiana, della gloriosa tradizione italiana per gli accenti tragicomici e agrodolci, capaci di stemperare attraverso l’ironia anche la rappresentazione della miseria più nera. E se dobbiamo a tutti i costi indagare C’è ancora domani in cerca del segreto del suo successo, l’unica ipotesi verosimile è che il film può banalmente contare su una sceneggiatura impeccabile, praticamente perfetta. La struttura dello script tracciata da Furio Andreotti, Giulia Calenda e la stessa Cortellesi si fonda infatti su una mirabile costruzione di set-up e pay-off. E così, quando lo spettatore si trova finalmente di fronte alla sequenza finale, attraversa tutte le emozioni legate a un vero e proprio colpo di scena, la risoluzione di un mistero costruito con la stessa perizia di un poliziesco o un giallo. E il fatto che la trama dell’opera risulti ormai arcinota, ma i nuovi spettatori che scoprono il film su Netflix restino tutt’ora sistematicamente stupiti, non è che la conferma di un’operazione di scrittura e regia veramente magistrali.
E voi cosa ne pensate? Siete del team detrattori o estimatori? Fatecelo sapere, come sempre, nei commenti.
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