Tra gli anni Sessanta e Settanta, il cinema europeo ha conosciuto una delle sue stagioni più sperimentali. È in questo contesto che nasce Fantasie di una tredicenne (Valerie and Her Week of Wonders) (1970), un’opera che mescola fiaba, erotismo, religione e horror in una narrazione surreale che sfugge a ogni definizione. Diretto da Jaromil Jireš, il film è una delle gemme più rare e sconvolgenti della Czechoslovak New Wave, nonché uno dei più audaci ritratti dell’adolescenza femminile mai portati sullo schermo.
Valerie ha tredici anni e vive in una cittadina immersa in un’eterna estate, un luogo che sembra uscito da un sogno. Ma quando una figura misteriosa le ruba gli orecchini mentre dorme, la realtà inizia a frantumarsi. Appaiono vampiri, religiosi corrotti, uomini mascherati, donne stregonesche, incesti sussurrati e oggetti magici. Il film non spiega, non guida: immerge lo spettatore in un flusso di immagini e simboli che raccontano la sessualità, la paura e il passaggio alla vita adulta attraverso un’estetica allucinata.
Il punto di forza di Valerie è proprio il suo sguardo: quello di una ragazza che osserva il mondo mentre cambia sotto i suoi occhi, senza ancora capirne le regole. È uno sguardo curioso, spesso meravigliato, ma anche profondamente inquieto. Il sangue – elemento centrale del film – non è solo quello dei vampiri: è il simbolo della trasformazione, della crescita, del corpo che cambia e diventa oggetto di desiderio e controllo.
Il villaggio, reale ma trasformato in una dimensione irreale grazie alla fotografia eterea e alla scenografia volutamente artificiale, diventa lo spazio liminale dove l’infanzia finisce e l’età adulta si manifesta con tutta la sua violenza simbolica e sessuale. Valerie, interpretata da una magnetica Jaroslava Schallerová, attraversa questi sette giorni come in un rito iniziatico, dove ogni incontro è una prova, ogni figura adulta un pericolo o una promessa corrotta.
Tratto da un romanzo surrealista di Vítězslav Nezval, Valerie è ricco di riferimenti psicoanalitici, gotici e religiosi. Specchi, maschere, croci, fiori macchiati di sangue: ogni inquadratura è un mosaico simbolico che evoca il subconscio più che la trama. Il racconto si frammenta progressivamente, e il film abbandona presto ogni pretesa di linearità narrativa, scegliendo invece una struttura da sogno lucido, popolato da figure archetipiche e visioni perturbanti.
La colonna sonora, composta da Luboš Fišer, amplifica questa sensazione di spaesamento. Suoni eterei, carillon sinistri e melodie ossessive accompagnano il viaggio di Valerie, che assume il tono di una fiaba gotica senza lieto fine, dove ogni passo avanti comporta la perdita dell’innocenza.
Nonostante le sue atmosfere fiabesche, il film è profondamente radicato nella realtà femminile. La nonna di Valerie è pronta a tradire e manipolare pur di riconquistare la giovinezza, schiava di uno sguardo maschile che la desidera solo in quanto giovane. Altre donne, come Hedvika, sembrano condannate a esistenze svuotate, rinchiuse in ruoli imposti. In questo contesto, Valerie diventa un film feroce, femminista senza mai essere didascalico, che denuncia la violenza patriarcale con il linguaggio del mito e del simbolo.
Il paragone con The Company of Wolves (1984) di Neil Jordan, scritto da Angela Carter, non è casuale. Entrambi i film affrontano il tema della scoperta del desiderio femminile e delle minacce che l’accompagnano, ma lo fanno attraverso i codici dell’horror e della fiaba. In Valerie, i mostri non sono solo immaginari: sono riflessi delle paure reali delle donne che crescono in un mondo fatto per divorarle.
A più di cinquant’anni dalla sua uscita, Valerie and Her Week of Wonders resta un film dirompente, visivamente ipnotico e tematicamente attualissimo. È uno di quei rari titoli che non si limitano a essere visti, ma che vanno attraversati, decifrati, vissuti. Una fiaba oscura, potente e delicata, che non ha paura di esplorare l’ombra che accompagna ogni passaggio verso la maturità.
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