Secondo alcuni, quando Sergio Leone arrivò a realizzare C’era una volta il West, non era più lo stesso autore che, una manciata di anni prima, aveva dato alla luce Per un pugno di dollari. Si era montato la testa e aveva cominciato a credere di essere il maestro che tutti dicevano. Si era fatto ammaliare da Hollywood e pensava di non aver più bisogno di Cinecittà. Si era scordato degli amici e ora frequentava “gli intellettuali”. Secondo altri, Sergio Leone era sempre stato lo stesso, sia prima del grande successo che dopo, solo che prima non poteva permettersi il lusso di comportarsi come voleva e dopo, invece, sì.
Sia come sia, è acclarato che il Leone di C’era una volta il West voleva liberarsi dai mezzucci e dagli inghippi che erano necessari in Italia per fare un film e smarcarsi con decisione dall’etichetta di regista di “spaghetti western” che gli era stata appiccicata. Voleva avere grandi budget, grandi set, grandi star e, soprattutto, voleva fare il vero Western americano, e non quello all’amatriciana, ricostruito alla buona nei deserti spagnoli.
E a quel punto, poteva farlo. La Paramount gli aveva promesso molti soldi, molta libertà e, soprattutto, Henry Fonda, una vera stella della Hollywood degli anni d’oro che Leone adorava. Era la sua grande occasione per poter dimostrare di non essere solo il miglior regista di una esotica exploitation italiana, ma un autore vero. Quel film era il suo invito a quella festa di gala conosciuta come la Hollywood che conta. E forse sta qui la ragione per cui, senza pensarci troppo, inizialmente si liberò dei suoi sceneggiatori storici (Luciano Vincenzoni e Sergio Donati), che assieme a lui avevano scritto la trilogia del dollaro, affidandosi invece a due giovani autori emergenti come Bernardo Bertolucci e Dario Argento, che in quel momento gli sembravano più alla moda e meno artigiani. Come andarono le cose è storia abbastanza nota: la lunghissima e caotica lavorazione dello script fece prima allontanare Bertolucci e poi anche Argento (i due andarono a seguire le loro carriere personali), costringendo Leone a richiamare Donati e a dirgli “gli intellettuali hanno mollato il lavoro, come possiamo andare avanti e finire il film?”. Donati, pur offeso, salì a bordo di quel treno per la frontiera e fece la fortuna di Leone perché la maggior parte dei dialoghi più belli del film li scrisse lui (assieme al direttore dei dialoghi in inglese, l’attore Mickey Knox).
Ma non fu solo la scrittura quella che risentì delle ambizioni di Leone, anche il cast ebbe i suoi problemi perché adesso che Leone aveva la possibilità di avvicinare le vere star di primo piano americane, non sentiva più il bisogno di rivolgersi a quei volti televisivi e a quei caratteristi che, fino a quel momento, avevano fatto la sua fortuna.
Chi ha bisogno di Clint Eastwood quando può avere Henry Fonda? E, a dirla tutta, chi ha bisogno di quegli stilemi favolistici e assurdi degli spaghetti western quando puoi fare un western vero? È sulla scorta di queste considerazioni che nasce la prima scena di C’era una volta il West, con una sofisticata apertura su una stazione ferroviaria persa nel nulla, con l’arrivo di tre sicari che chiudono nella latrina un vecchio capotreno e si mettono in attesa dell’arrivo di qualcuno. Il tempo viene dilatato in mille dettagli. Primi e primissimi piani (1).
La pelle sudata. Lo sporco. Gli stivali. Le assi. Una goccia d’acqua che cade. Lo sputacchio di tabacco nella polvere. Il cigolio di una pala a vento (2).
Poi il treno arriva ma non scende nessuno. I sicari si voltano per andarsene ma, allo scorrere dei vagoni, scopriamo che una figura solitaria è calata giù dall’altra parte (3):
un solo uomo che, oltre i binari, suona una sinistra melodia con un’armonica che porta al collo (4).
Quando la musica finisce, i quattro si scambiano poche parole: è chiaro che le cose si mettono male. Tutti estraggono (5).
Due sicari cadono subito, uno ha il tempo di sparare un colpo che, sorpresa, colpisce il pistolero con l’armonica, che finisce a terra (6).
Dettaglio sulla pala a vento (7),
poi vediamo che è solamente una ferita di striscio, alla spalla, e che quello che ormai abbiamo capito essere uno dei protagonisti del film, sta bene (8).
Da quel momento in poi il film, pur mantenendo tutti gli stilemi della regia di Leone, diventa altro. Si apre a uno scenario più ampio, a uno sguardo sulla grande frontiera, abbandonando la stilizzazione e gli estremismi tipici dello spaghetti western. Nell’idea originale di Leone, i tre sicari alla stazione avrebbero dovuto avere il volto di Lee Van Cleef, Eli Wallach e Clint Eastwood e tutta la scena avrebbe dovuto essere rappresentativa di quello che Leone voleva dire con la sua nuova pellicola: “Basta con le favole, basta con le imitazioni, questa volta facciamo sul serio”.
Cleef aveva accettato (del resto, nel corso della carriera si era trovato in parti ben più umilianti di quella che gli offriva Leone), Wallach pure (essendo anche grande amico di Fonda), ma a Eastwood non andava poi molto di vedere il suo personaggio iconico ridotto a una macchietta di cui il regista voleva liberarsi in funzione di un nuovo eroe. Leone allora, proprio come con Donati, tornò sui suoi passi gli propose la parte di Armonica ma non se ne fece nulla. Il ruolo andò a una quasi star di quel periodo, Charles Bronson, ed Eastwood non si pentì mai della sua scelta. All’epoca della sua uscita in sala C’era una volta il West non andò bene come i film precedenti di Leone, in special modo negli Usa, dove la pellicola fu soggetta anche degli estesi tagli a causa della lunghezza e Leone non entrò mai a far parte della scena hollywoodiana, tanto è vero che i suoi due film successivi furono produzioni europee. Nulla gli impedì però di essere riconosciuto come l’influente maestro che era.
Foto: © Rafran Cinematrografica, San Marco, Paramount Pictures
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