Chi è senza colpa, un grande Tom Hardy nell'ultimo film di Gandolfini. La recensione
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Chi è senza colpa, un grande Tom Hardy nell’ultimo film di Gandolfini. La recensione

Michaël R. Roskam dirige un noir di stampo piuttosto classico, ma intrigante e teso, che punta tutto sulle interpretazioni dei protagonisti

Chi è senza colpa, un grande Tom Hardy nell’ultimo film di Gandolfini. La recensione

Michaël R. Roskam dirige un noir di stampo piuttosto classico, ma intrigante e teso, che punta tutto sulle interpretazioni dei protagonisti

Nonostante la sua natura ibrida, il noir è un genere che ha sempre vissuto secondo codici precisi: ineluttabilità del destino, ambiguità di storia e personaggi contrapposta alla netta distinzione tra bene e male – tipica del cinema classico -, e un certo pessimismo di fondo. Dennis Lehane, uno dei più brillanti giallisti in circolazione (e nome caro al cinema: dai suoi romanzi sono nati Gone Baby Gone, Mystic River, e Shutter Island), costruisce la sceneggiatura di Chi è senza colpa partendo da queste regole, senza stravolgerle con le contaminazioni del neo-noir. E Michaël R. Roskam, giovane regista belga (se non conoscete il suo Rundskop, recuperatelo), completa il quadro con una regia solida e malinconica, che lavora sulle ombre e i sensi di colpa dei protagonisti. Che sono Bob Saginowski (Tom Hardy) e suo cugino Marv (James Gandolfini, alla sua ultima apparizione su grande schermo), gestori di un bar di Brooklyn, centro per la raccolta di denaro e tangenti (da qui il nome “drop bar”) di un gruppo di mafiosi ceceni, i veri proprietari del locale.

Bob e Marv sono due caratteri opposti: taciturno e risoluto il primo, impulsivo e collerico il secondo. Entrambi, però, nascondono dei lati oscuri che si svelano strada facendo. Marv è il più trasparente nel suo continuo rimpiangere il passato (prima della nuova criminalità che ha invaso Brooklyn, il bar era suo), ma è Bob il più interessante e il merito è tutto di Tom Hardy, uno dei pochi, se non l’unico a Hollywood, in grado di suscitare empatia anche solo alzando un sopracciglio.

La sua è un’interpretazione controllata, quasi minimale nei gesti e nelle reazioni. Eppure raggiunge livelli di intensità altissimi, mano a mano che la vera natura del suo personaggio viene alla luce. Nel film ne passa di ogni: prima trova un cucciolo di pitbull picchiato e abbandonato nel cestino dei rifiuti di una sua vicina di casa, Nadia (Noomie Rapace), tipa alquanto strana; poi, una volta tenutosi il cagnolino, viene perseguitato da colui che si dice il suo padrone, un maniaco pazzoide che per altro è anche l’ex fidanzato di Nadia. Senza dimenticare la rapina al suo bar, che prosciuga la cassa e dunque fa sparire i soldi dei ceceni. E in questo vortice di situazioni, Bob non batte mai ciglio. È l’esempio perfetto delle sfumature del noir: va spesso in chiesa senza mai confessarsi e resta impassibile anche di fronte a una mano mozzata, di cui si libera con una disinvoltura inquietante. Un uomo che non rinnega il passato ma allo stesso tempo prova a sfuggirgli, conducendo una vita il più possibile regolare.

La prima volta che entriamo nel suo “drop bar” è già successo molto (e molto dovrà ancora succedere), e la regia di Roskam, lavorando per anticlimax, ci porta nella sua mente, in un viaggio di violenza e morte che culmina solo nell’ultimo atto. Siamo nel territorio criminale più tradizionale, dove vendetta e denaro la fanno da padroni. E dove l’unico vero innocente è il piccolo pitbull del protagonista. È l’animo umano, in cui bene e male sono due riflessi dello stesso specchio.

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